Finanza e politica. Garanzie italiane solide e manovra lacrime e sangue

22 Luglio 2011

Enea Franza

 

Lacrime e sangue? Per l’Euro ne vale la pena, ma tutto ha un limite davanti alle speculazioni pilotate e alle scelte della BCE

Una manovra lacrime e sangue ha conseguenze devastanti nel nostro tessuto sociale, ed è difficilmente proponibile nell’attuale contesto di perenne conflitto politico. Piuttosto, sarebbe necessario che i burocrati della banca centrale capissero che va trovata una via di uscita dalla crisi, e che va chiuso il capitolo dell’euro forte.

 

La crisi dei mercati e la pessima performance del 18 luglio a Piazza Affari (dove in una sola seduta sono stati bruciati 12 mld ed il future sul Ftse Mib ha registrato un livello sotto i 18.000) danno il polso di una situazione di crisi dei mercati che sembrano non più sotto controllo. I giornali italiani ne danno ampio risalto, segnalando le perdite di Piazza Affari. I timori per il debito sovrano e la corsa dell’oro (che ieri ha sfondato la soglia dei 1.600 usd/oncia) dominano, invece, sulla stampa internazionale.
I giornali nostrani non sottolineano abbastanza, tuttavia, che la brutta performance dei mercati finanziari è stata bilanciata dal miglioramento dello spread sui titoli pubblici italiani rispetto a quelli tedeschi, che si allontana dal record di 347 p.b. toccato la scorsa settimana , scendendo ai 312 p.b. Livello, ricordiamolo a scanso di equivoci, ancora troppo alto. Com’è facilmente intuibile, anche da chi di mestiere non fa l’economista, ai fini del rifinanziamento del debito pubblico in scadenza è certamente a tale valore che occorre fare riferimento. Lo spread rispetto ai bond tedeschi misura, infatti, il maggior costo sostenuto dalle finanze italiane nel finanziamento del debito pubblico, rispetto a titoli ritenuti universalmente affidabili, come quelli tedeschi. Sappiamo che un aumento degli interessi provoca un peggioramento del debito pubblico proprio a ragione del maggior esborso monetario in termini di interesse da pagare sui titoli collocati.
L’enorme debito pubblico italiano, pari a 1.843.015 milioni di euro nel 2010, è composto per oltre tre quarti da passività a medio lungo termine (1.418.737 milioni), e ed emesso quasi completamente a tasso fisso. La vita residua media di tale debito pubblico è di 7,8 anni. Con tali numeri a disposizione è più facile forse, a questo punto, intuire il forte impatto negativo relativo all’aumento degli interessi ad ogni fase di rifinanziamento del debito. Che il debito italiano sia abbastanza stabile, tuttavia, è un fatto. Esso, infatti, è detenuto per il 46,15% dalla Banca d’Italia o da istituzioni finanziarie italiane, mentre il 9,58% è posseduto da altri residenti e solo il restante 44,27% è allocato all’estero . Ciò significa in definitiva che la quota di debito finanziata sui mercati internazionali è in realtà meno della metà. I rischi di un mancato rifinanziamento si riducono pertanto di molto, in quanto l’acquisto è in gran parte garantito dalla Banca d’Italia che poi gira gran parte dei titoli alle nostre banche. Insomma, rischi veri non cene dovrebbero essere. Il mercato dei titoli di stato italiano è poi un mercato molto efficiente e garantisce una piane liquidabilità dei titoli.
Tuttavia, per l’Italia, i giornali nostrani non riflettono particolarmente sulla questione ed invece pongono particolare enfasi sulla recente manovra sulla spesa pubblica, giudicata generalmente insufficiente, e come prova portano proprio l’andamento del mercato di borsa. Tra questi in particolare la Repubblica del 19 luglio. Altri, secondo noi in modo più equilibrato, mettono in luce che in realtà ad essere sotto attacco è l’euro, e di riflesso gli anelli deboli della unione monetaria. Ma forse a spiegare la volatilità dei mercati finanziari c’è anche la “paura” registrata dagli operatori per una situazione generale di obbiettiva incertezza, su cui pesa la risposta che le autorità europee sapranno dare alla crisi greca.
Tra i tanti commenti che ci capita di leggere in questo periodo, se c’è una cosa che ci colpisce è l’idea generale che nel nostro paese si possa raggiungere l’auspicato pareggio di bilancio, obiettivo stabilito dalle autorità europee e scritto nei vari patti di stabilità da conseguire entro il 2014 solo con una manovra economica “lacrime e sangue”.
Mi permetto di fare solo un paio di osservazioni. Tagliare il debito vuol dire tagliare la spesa pubblica. Ciò premesso, se prendiamo gli ultimi dati disponibili (relativi al 2009), una compiuta analisi delle componenti del denaro speso evidenzia come la spesa corrente rappresenta circa il 91% della spesa pubblica totale e che essa è ripartita nelle seguenti principali voci: prestazioni sociali (19% del Pil), retribuzioni dei dipendenti pubblici (11,4%), consumi intermedi (8,7%) e spesa per interessi (4,8%) . La spesa in conto capitale rappresenta solo il 4,8%, di cui una piccola quota (il 2,6%) va in investimenti diretti.
I dati mostrano con immediatezza che una manovra, perché abbia effetti significativi sul debito pubblico accumulato, spezzando la necessità di rifinanziamento, dovrebbe aggredire quelle componenti che più pesano. Ma come si vede già dai dati sopra riportati, ciò vuol dire che ad essere tagliata deve essere la spesa sociale (previdenza e assistenza) che, ricordiamolo, da sola rappresenta più del 38% della totale delle spese, di quella per i servizi generali (9%), per la sanità (7,1%) e per l’istruzione (4,7%).
Come è possibile fare ciò? La politica aveva indicato nella strada delle riforme la soluzione ai problemi del contenimento del debito pubblico. Ma, come abbiamo potuto constatare in questi anni, la strada delle eventuali riforme è lastricata di buone intenzioni.
Vediamo un attimo di cosa si tratta.
Con protezione sociale, intendiamo la redistribuzione del reddito a favore delle persone con disabilità in tre settori di intervento: sanità, assistenza e previdenza. Si tratta in definitiva di prestazioni sociali di tipo monetario (ad esempio le pensioni agli invalidi civili) e prestazioni sociali in natura, come assistenza domiciliare dove ad intervenire sono persone che vengono pagate direttamente per i loro servizi dallo Stato. Le prestazioni pensionistiche posso essere di tipo assistenziale (Prestazioni di Invalidità Civile e categorie assimilate), non legate allo svolgimento di alcuna attività lavorativa, ovvero di tipo previdenziale (Prestazioni di Invalidità e Prestazioni Indennitarie), connesse allo svolgimento di un’attività lavorativa. Tale distinzione ha importanza in quando nel primo caso non c’è un pagamento di una qualche contribuzione assicurativa. La spesa per la Protezione Sociale del totale Istituzioni è stata nel 2007 pari a 395.516 milioni di euro (ISTAT, 2007). Al 31 dicembre 2008, i percettori di pensione per persone con disabilità erano poco meno di 4milioni e 700mila (ISTAT, 2010), in linea peraltro con le medie europee.
Colpire in questo settore vuol dire, tranne diverse ipotesi qui non considerate (molto probabilmente marginali), tagliare una funzione fondamentale di uno stato moderno, che garantisce dignità ai propri cittadini. L’Italia, dall’altro verso, però, ha il sistema di protezione sociale con la più alta quota in Europa assorbita dalla funzione vecchiaia, che tuttavia è generalmente connessa ad un sistema previdenziale. Dove però una percentuale elevata di spesa, fortemente collegata alla previdenza, è rappresentata dalle pensioni erogate ai familiari superstiti, che nel 2008 assorbiva in Italia il 9,4% del totale, mentre in Europa era in media il 6% della spesa per la protezione sociale.
Mantenere i diritti acquisiti vuol dire in definitiva che non si può fare altro che tagliare la spesa per le prestazioni previdenziali future, ovvero, in altre parole vuol dire innanzi tutto far pagare ai pensionandi il costo delle pensioni attualmente erogate. Ciò può essere fatto solo allungando l’età lavorativa ed equiparando l’età pensionabile tra uomo e donna. Non sfugga al riguardo l’enorme ingiustizia di uno Stato che solo per pagare le pensioni – molte delle quali anticipate e collegate alle ultime retribuzioni percepite – fa lavorare di più altri cittadini che non hanno, generalmente, alcuna colpa di quanto accaduto e neanche possono dirsi beneficiati dagli attuali pensionati.
Come si vede, una manovra lacrime e sangue ha conseguenze devastanti nel nostro tessuto sociale, ed è difficilmente proponibile nell’attuale contesto di perenne conflitto politico.
Piuttosto, sarebbe necessario che i burocrati della banca centrale capissero che va trovata una via di uscita dalla crisi, e che va chiuso il capitolo dell’euro forte.
Ma tornando al nostro paese e alla spesa sociale, in definitiva, solo queste due piccole osservazioni. Il nostro sistema di welfare è incentrato sulla famiglia, sul principio che la tutela del lavoratore permette la tutela della famiglia di cui il lavoratore stesso si dovrebbe far carico. Le cose negli ultimi venti anni sono cambiate, con una accelerazione sempre più forte. Oggi i nuovi poveri sono i separati, i vecchi che vivono da soli ed i sistema italiano non garantisce i giovani disoccupati, molti dei quali hanno abbondantemente superato i 30 anni. Peraltro il sistema di protezione è pagato sostanzialmente dalle imprese ed il costo cresce al crescere del della loro dimensione. Ne segue una moltiplicazione elusiva delle norme di protezione del lavoro da parte di non poche piccole imprese.
Tutto ciò, ma non solo, fa si che il nostro sistema di protezione sociale ha i costi del sistema francese e una protezione più simile a quella americana!

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