Roma, Alemanno e le fanfaluche urbanistiche

06 Settembre 2011

Mino Mini

 

REDDE RATIONEM

LA CAPITALE INCOMPIUTA

Una sintesi spietata delle incocncludenze, degli arretramenti e del declino della politica di Alemanno per Roma Capitale, su piano urbanistico mai decollata

 

Ai tempi in cui l’Italia veniva presa per il lato B dalla sinistra, quando – per gli immemori – il PCI andava spacciandosi per una forza dalle mani pulite, Aldo Natoli, figura storica di quel partito a Roma, formulò un aforisma di successo: “capitale corrotta nazione infetta”. Era, allora, consigliere comunale comunista avverso alla politica urbanistica del democristiano Urbano Cioccetti sindaco di Roma dal 1957 al 1960.

Natoli, parce sepulto, è morto quasi centenario a 97 anni nel 2010. Ancorché confinato nel gruppo del Manifesto, ebbe bell’agio di vedere quale pasta di corrotti si fossero rivelati i suoi ex sodali una volta andati al potere in Campidoglio nel 1976 e ivi rimasti per trantadue anni. Non riusciamo ad immaginare come avrebbe definito Milano, che sempre si è reputata la capitale morale ed economica d’Italia, se fosse venuto a conoscenza del caso Penati; quanto avrebbe retto il suo moralismo nel venire a sapere che il reato di corruzione, se riesce ad essere occultato per cinque anni, cade in prescrizione. Fatti i conti, tutto ciò che è avvenuto a Roma dal 1976 al 2006 è caduto in prescrizione ed ipso facto la sinistra, che in quel trentennio di “crescita” riuscì a gestire oltre novantaseimilioni di metri cubi di edilizia residenziale – per non parlare del resto – ne è uscita con l’imene rifatto dalla chirurgia plastica praticata da certa magistratura. Queste vergini farlocche – come avemmo già occasione di chiamarle – possono oggi permettersi di rompere i cosioni agli avversari politici attribuendo agli stessi tutti quei misfatti che loro hanno compiuto in trenta anni. E anche di più.

Poiché, di questi tempi, a sinistra financo la parola corruzione è prescritta, le vergini farlocche per attaccare Alemanno hanno riadattato l’aforisma natoliano alla nuova situazione: “capitale selvaggia nazione infetta”.

Confessiamo che l’originale aforisma di Natoli ci piace perché, al di là dell’intento moralistico e denigratorio che l’autore intendeva esprimere, mette a fuoco la stretta interdipendenza tra la capitale e la nazione. A ben vedere è la riproposizione, in scala territoriale, del celebre monologo di Menenio Agrippa: come le membra del corpo vivente possiedono la propria forma ma possono essere esattamente come sono soltanto perché trovano posto dentro al tutto, così la capitale – nella fattispecie – e tutte le altre città possono essere ciò che sono soltanto perché trovano posto dentro al tutto-nazione.

Per questo, dopo le ultime recenti elezioni che hanno portato al cambio di potere al comune di Milano determinando l’infezione della nazione per ammaloramento di un altro organo vitale, l’emergenza nazionale richiede sia svolta una analisi spietata della situazione capitolina che appare, per molti versi, assai critica.

I tempi sono veramente stretti. Non a caso il 13 aprile scorso Alemanno, durante una cena della sua fondazione “Nuova Italia” ebbe a dichiarare: “mi ricandiderò nel 2013. Ê fin da ora dobbiamo essere in grado di comunicare alla città quello che stiamo facendo… tutti i miei amici si devono già sentire in campagna elettorale”.

Cosa andrà a dire Alemanno, questa volta, ai cittadini romani e come renderà conto a quelli italiani circuiti o sbeffeggiati – secondo il luogo – dalla demagogia leghista che sputa sul tricolore e, soprattutto, sul ruolo di Roma?

Ricordiamo l’aut-aut che ebbe a porre agli elettori nel 2008 quando Roma, pur esistendo come capitale nella realtà e nella coscienza dell’universo mondo – italiani compresi – non risultava ancora tale nella legislazione repubblicana: “ Il 13 e 14 aprile i romani devono decidere: da un lato uno stanco continuismo rappresentato da una sinistra … Dall’altro ci siamo noi che rappresentiamo il cambiamento”. Fu al cambiamento, eretto ad obiettivo primario, che sarebbero stati subordinati gli altri cinque obiettivi pratici:

1. Fare di Roma una vera capitale europea;

2. Espellere 20.000 tra nomadi e immigrati clandestini;

3. Dar vita ad un piano straordinario per il traffico;

4. Realizzare 25.000 alloggi di edilizia sociale e incentivare quella privata da porre sul mercato dell’affitto a prezzi controllati;

5. Realizzare asili nido ovunque se ne ravvisasse la necessità.

Di questi quello che, all’insegna del cambiamento, avrebbe dovuto caratterizzare l’era Alemanno ça va sans dire sarebbe stato il primo, sul quale convergevano pure le aspirazioni di una consistente frangia di elettori della sinistra estrema delusi dalla gestione Veltroni. Difatti il 28 aprile 2008 annunciò in proposito: “Lavoreremo … per riportare Roma in Europa quale Capitale punto d’incontro dei paesi del Mediterraneo”.

Era coscienza diffusa che, per operare il cambiamento tanto auspicato, occorresse una svolta culturale, una imago mundi in grado di elaborare il disegno risolutore che desse forma all’agglomerato informe di quartieri senza città che l’amministrazione precedente aveva lasciato. Fu, quindi, con fiducia e favore che fu salutata la prima mossa tattica del nuovo sindaco. Facendosi forte della legge 15 luglio 2002 n.145 “Disposizioni per il riordino della dirigenza statale per favorire lo scambio di esperienze e l’interazione tra pubblico e privato” avviò lo spoil system – come viene chiamato l’avvicendamento – sistemando nei posti chiave suoi fedelissimi provenienti, in buona parte, da quella destra extraparlamentare che, emarginata dal partitismo, rivendicava – a parole – una visione dell’esistenza “altra”. Non solo rispetto a quella della sinistra fino ad allora imperante, ma financo rispetto alla destra forzaitaliota ed aennina.

Sennonchè un sindaco, nonostante la legittimazione elettorale, in assenza di una visione organica della città e della gerarchia dei ruoli delle diverse componenti economico-tecniche, sociali e comunitarie, non può ignorare le sollecitazioni dei veri padroni di Roma, quelli che “votano ogni giorno”. Talché, quando Eugenio Batelli, presidente dell’ACER, si espose personalmente per la nomina di Marco Corsini ad assessore alle Politiche Urbanistiche, Alemanno acconsentì. Era ed è costui un avvocato che, però, non era un Virgilio Testa realizzatore dell’EUR del dopoguerra. All’interno della compagine alemanniana la scelta fece storcere più di un naso. La sponsorizzazione che aveva portato il nuovo assessore, non era tale da lasciar sperare in una nuova visione della città. Al contrario, sembrava lasciar presagire la continuità di una concezione che aveva portato all’attuale declino urbano.

Quanto fosse attendibile il presagio possiamo comprenderlo solo ora con il senno di poi. Infatti, ripercorrendo il corso del “cambiamento” dell’era alemanniana attraverso i passaggi più significativi, è possibile rendersi conto di quanto, al momento della sua elezione, Alemanno, alla stregua degli altri suoi colleghi sindaci dei diversi schieramenti, fosse del tutto impreparato a governare una città così densa di grandezza urbana nel suo nucleo storico e così urbanisticamente miserabile nella sua espansione. Impreparazione che portava a dover fronteggiare fatalisticamente i problemi urbani con il ricorso al modus operandi che aveva caratterizzato i precedenti sindaci di Roma e che caratterizza tutti i sindaci delle altre città.

Per quanto elevati possano essere i valori cui si fa riferimento e le competenze specifiche in discipline e tecniche settoriali, a nulla valgono se non si è in possesso di una concezione organica della città che sappia come dominare la totalitaria visione economicista che ha realizzato il meccanismo della città prêt à habiter al funzionamento del quale tutto è subordinato, decisioni politiche comprese. E la concezione organica non basta. Strategicamente un candidato sindaco, specialmente di una città capitale come Roma, che sa di avere davanti a sé soltanto cinque anni di mandato, deve avere già elaborato l’idea di città per la quale si propone al consenso dei cittadini. Una “città ombra” che, alla stregua del classico governo ombra, offra gli strumenti della critica se all’opposizione, ma fornisca la strategia per l’attuazione pratica se al potere.

Vediamolo in breve questo percorso del “cambiamento”.

Appena eletto e per tutto il rimanente 2008, Alemanno se la dovette vedere con un lascito dell’amministrazione Veltroni: un debito di 6.874 milioni di euro nel 2007. Una voragine finanziaria alla quale si dovevano aggiungere 1.277 milioni di euro contrattualizzati ma non ancora erogati per le linee metropolitane B1 e C, parcheggi, nodi di scambio, corridoi per la mobilità e opere avviate per la emergenza traffico. In totale, un debito preventivabile di 8.151 milioni di euro. Con l’aiuto del governo che lo nominò commissario starordinario, riuscì a far approvare il 5 dicembre 2008 un piano di rientro che fu sancito con un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM).

Il 2009 cominciò il lungo iter del disegno di legge sul federalismo fiscale che prevedeva, all’art.22, l’”Ordinamento transitorio di Roma Capitale ai sensi dell’art.114 terzo comma della Costituzione” di cui ci occupammo su queste pagine nell’aprile 2009 (L’anello al naso).

Un anno dopo, il 6-7 aprile , a due anni dalla sua elezione,

Alemanno fece la prima mossa indicendo un workshop all’Auditorium dal titolo:”Nuovi modelli di trasformazione urbana”. La partecipazione dei cittadini con una affluenza da stadio caratterizzata da una forte componente giovanile, diede la dimostrazione di quanto fosse atteso il cambiamento sul futuro della città. Nel confronto improntato dal protagonismo delle archistars, non si sentì né si vide alcun nuovo modello di trasformazione urbana che fosse il prodotto di quella visione culturale che lo spoil system messo in atto da Alemanno aveva fatto sperare.

Non emerse una terza visione della città rispetto ai due contrapposti atteggiamenti nei confronti della stessa. La cultura che avremmo voluto riconoscere di destra fu pressoché assente come lo fu – per mancanza di potere partitico – quella che concepisce la città come un organismo simbiotico di uomo e ambiente. Alemanno sembrò, piuttosto, timidamente ansioso di assicurarsi la benevolenza delle archistars che Veltroni e, prima di lui, Rutelli avevano chiamato a Roma. Lo definimmo un “Flop” su queste pagine (giugno 2010), ma ingenuamente non perdemmo del tutto la speranza visto che si era trattato di un primo workshop prodromico a sviluppi futuri.

Nell’ottobre dello stesso anno entrò in vigore il Decreto Legislativo n.156/2010 che partorì, sulla carta, Roma Capitale. Stava, ora, ad Alemanno ed alla sua capacità il prefigurare una

città diversa, quella che in campagna elettorale aveva definito “… una vera capitale europea … per riportare Roma in Europa quale … punto d’incontro dei Paesi del Mediterraneo”. Il governo e quindi l’Italia si aspettavano, in sostanza ed in spirito, che Alemanno desse forma alla capitale della nazione.

La risposta non si fece attendere: l’1-2 dicembre 2010, poco più di un mese dopo, un secondo workshop – “Ritorno alla città”- si svolse all’ Ara Pacis. Ne demmo relazione a gennaio 2011 sotto il titolo “A misura d’uomo” manifestando, però, i primi sintomi della sfiducia circa l’indirizzo che il problema della città e delle sue periferie stava prendendo.

Non emergendo un’idea vincente e dopo aver bruciato mezzo mandato, non c’era che da far ricorso ai poteri forti a sostegno della collaudata politica dei grandi eventi.

Il gennaio di quest’anno avvenne il colpo di scena:Alemanno rimpastò la giunta.

All’attenzione critica degli osservatori apparve chiaro come i poteri forti avessero richiesto un segno di disponibilità da parte del sindaco. Il sistema delle banche, impersonato da Cesare Geronzi, venne rassicurato con la nomina di un loro uomo: Carmine Lamanda, ex Bankitalia, ex capogabinetto del ministero del Tesoro del governo Dini, direttore di Capitalia. Il patto con il mondo dei costruttori venne rinsaldato con la riconferma di Marco Corsini; il mondo cattolico fu tranquillizzato con l’ascesa all’assessorato alla Famiglia, all’Educazione ed ai Giovani di Gianluigi De Palo e con l’assessorato alle politiche culturali e Centro Storico ad un esponente UdC Dino Gasperini.

Poco più di un mese dopo, fu chiara a tutti la finalità del rimpasto: coinvolgere ai massimi livelli i poteri forti in una operazione che, sotto lo scudo del Piano Strategico di Sviluppo (PSS) prevalente su ogni destinazione di P.R.G., mirava a portare a Roma le Olimpiadi 2020. Il solito vecchio e collaudato escamotage: il Grande Evento che avrebbe fatto piovere su Roma un fiume di investimenti per la realizzazione delle opere necessarie. Per la mentalità economicistica ormai assunta dal sindaco, era come prendere due piccioni con una fava all’insegna del sillogismo: opere per le Olimpiadi = opere per Roma. Come se la quantità e il gigantismo delle opere fossero un modo di concepire la città. Logica conseguenza fu il secondo coup de théâtre dopo quello del rimpasto.

Il 21-22-23 febbraio 2011 vennero convocati gli “stati generali” di cui demmo relazione in aprile su queste pagine sotto il titolo “Il grande gioco”. Con grande rilievo venne illustrato il PSS redatto da un personaggio che impersonava, per Alemanno, la vera visione della città: Paolo Glisenti, l’uomo dei grandi eventi.

Arrivò, infine, la primavera araba a mandare in frantumi un’altra immagine elettorale con la quale Alemanno aveva affascinato i suoi elettori nel 2008: l’idea di Roma capitale europea punto di incontro dei paesi del Mediterraneo. Loris Facchinetti, delegato dal sindaco per questo particolare aspetto, in tre anni non aveva ancora prodotto alcuna iniziativa di qualche rilievo e sappiamo tutti cosa stia accadendo.

E siamo a questo punto. Come ha fatto intendere Adalberto Baldoni ne “Il miraggio delle Olimpiadi” su Il Borghese del mese scorso e come altre fonti provenienti dal mondo sportivo ci hanno confermato, i vertici del comitato promotore per <<Roma 2020>> sono convinti che la partita per l’assegnazione dei giochi olimpici sia perduta in partenza per ragioni di geopolitica sportiva. Tutta una montatura, allora, la convocazione degli stati generali? Non necessariamente. Però resta il fatto che la tanto auspicata immagine della città in discontinuità con il passato non è mai stata formulata. Dall’insieme delle opere previste dal PSS non emerge l’immagine della città – malgrado Glisenti – ma una mera sommatoria di “progetti” elaborati, come denunciano le opposizioni, dalla giunta Veltroni.

Oddio! Se le opere pensate dalla giunta Veltroni nella riformulazione alemanniana acquisissero valore di città organica, non ci sarebbe nulla di male. Anzi. Ma nella fattispecie è il tanto deprecato”metodo Veltroni” che viene adottato e questo invia tanti saluti al cambiamento ed alla discontinuità.

A conclusione, ritorniamo all’aforisma di Aldo Natoli da cui eravamo partiti parafrasandolo sconsolatamente: capitale incompiuta, nazione mutilata.