Corporativismo e socializzazione: da Verona all’Europa del futuro

20 Ottobre 2011

 Filippo Giannini e Aldo Spera

 

STATO CORPORATIVO E SOCIALIZZAZIONE: NEL RICORDO DEL MANIFESTO DI VERONA UNA PROPOSTA PER IL XXISECOLO PER L’ITALIA E PER LA NUOVA EUROPA

PARTECIPAZIONE INTEGRALE DEL POPOLO AL POTERE IN UNO STATO ORGANICO

 

No, non sono un democratico e non credo nella democrazia: non credo nella democrazia che ci fu imposta dagli eserciti stranieri. Affermo, invece, in tutta coerenza razionale, il valore della Democrazia Organica o, se così vogliamo chiamarla, Democrazia del Lavoro.
Terminammo il precedente articolo sullo Stato Corporativo con l’impegno di tornare sull’argomento, cosa che ci stiamo proponendo di fare.
Richiamiamo preliminarmente quanto ebbe a dire Benito Mussolini: <Il marcio non è NEL sistema, ma è DEL sistema> anche in funzione del fatto che riteniamo che nessun lettore si può augurare che l’attuale sistema possa continuare a vivere. Che l’attuale sistema sia marcio, lo è perché nato da un seme marcio e proclama la santità dell’attuale Democrazia (così i potenti la chiamano), proclama che il cittadino può avvalersi dell’alternanza, cioè concede che al termine di ogni legislatura il cittadino, non soddisfatto di come è stato governato, possa passare l’autorità del governo all’opposizione. Questa è una bidonata, perché proclama un cambiamento solo apparente per far rimanere le cose come erano. In altre parole, è come se un contadino, o chi per lui, ci invitasse a gustare le mele di un albero: prima gustiamo quelle mele che pendono dai rami di destra, poi se non sono di nostro gradimento ci invitasse a provare quelle di sinistra. Questa è la bidonata: rami di sinistra o di destra, le mele saranno fetenti in ogni caso, perché l’albero è sempre quello. Atto pratico: abbiamo “gustato” il governo Berlusconi di centro-destra, e abbiamo constatato la sua incapacità; i democratici ci dicono: ora provate con il centro-sinistra. Sai che capolavoro, come si dice: <Dalla padella alla brace!>. Perché? Perché il sistema è lo stesso e ci darà la solita fetenzia. Torniamo all’esempio dell’albero: non vogliamo più le mele ma vogliamo, ad esempio, le pere, cioè pretendiamo di cambiare il sistema.
Premessa: i vincitori dell’ultima guerra, cioè quei vincitori di una guerra perduta, hanno concepito tre leggi liberticide (alla faccia della democrazia e della libertà) con le quali ci è vietato di esprimere chiaramente chi siamo. Per indicare chi siamo, chiamiamoci: “Noi”, il lettore comprenderà perfettamente.
Per “Noi” l’organizzazione della società dipende, innanzitutto dalla politica ed è indispensabile che la politica controlli e diriga l’economia. Esattamente il contrario di come viene concepita la politica nel sistema vigente. Politica concepita e partorita dalla resistenza, cioè dai servi dei vincitori demoplutocratici del 1945.
Mussolini, sì, sempre lui, chi altri, altrimenti?
Egli concepì, avvalendosi della teoria dello Stato etico di Giovanni Gentile, uno Stato Corporativo che altro non era se non lo sviluppo dei Punti programmatici espressi il 19 marzo 1919 con la fondazione dei Fasci di Combattimento avvalorati da De Ambris e da D’Annunzio, autori della Carta di Libertà del Carnaro. Così, nel 1927, vide la luce la Carta del Lavoro, già ricordata nel precedente articolo, tutto ciò seguendo un progetto di collaborazione e solidarietà che superava la filosofia materialistica (rovinosa e fallimentare) della lotta di classe di profilo marxista. Questo progetto, forse oggi ancora più valido di allora in quanto il lavoro assumerebbe più che mai, di fronte alla deriva estrema del capitalismo liberista sovraordinato alle leggi degli Stati, una valenza primaria, assegnando ai lavoratori e alle varie competenze il compito di eleggere le proprie rappresentanze di categoria destinate a legiferare in Parlamento.
E i partiti politici?
Per i danni che questi arrecano e che hanno arrecato per la corruzione di cui sono portatori, meriterebbero di essere gettati in una discarica a cielo chiuso. Naturalmente, gli autori di queste note si rendono conto che un trapasso come quello indicato è impossibile soprattutto perché per realizzare il nuovo sistema sarebbe necessario disporre di quanto ci viene negato: la possibilità di accedere a mezzi d’informazione adeguati. Altrimenti, per molti lettori “sprovveduti” (perché del tutto impreparati culturalmente alla recezione del messaggio della dottrina corporativa) si rimane sul piano della fantasticheria e, addirittura, del vaneggiamento. Va aggiunto che “Noi” siamo divisi e rancorosamente spezzettati, grazie alle tante operazioni messe in atto da coloro che vogliono che tutto rimanga come è. Per i “Noi” sopravvissuti a tali disgregatrici e divoratrici tempeste, i concetti liberaloidi di destra, centro e sinistra rimangono completamente privi di senso.
Chi scrive queste note ritiene che fu un irrimediabile errore quello compiuto dal MSI definirsi di Destra, perché quelle idee non possono essere assolutamente di Destra.
Da un articolo di fondo scritto da un Segretario di partito, leggiamo: <Bertinotti, in fondo, è umanamente simpatico. Molto più di Cossutta (…). Dov’è l’errore grande del compagno Bertinotti? Sta appunto in quel compagno. Sta nel dire talvolta cose giuste e magari sacrosante, ma pretende di sostenerle sotto la bandiera rossa e all’insegna del comunismo>. Così l’articolo continua: <Bertinotti dovrebbe anche capire che spesso egli difende acquisizioni e strutture ed esigenze che non appartengono alla storia del comunismo in quello che è stato il suo concreto realizzarsi>. L’articolista conclude: <Quando difende, per esempio, lo Stato sociale, quel poco che ne resta in Italia, lo sa o non lo sa, che difende lo Stato sociale per come lo realizzò in Italia nel Ventennio, il di lui odiatissimo Fascismo?>.
Confermo: Stato sociale voluto e attuato da Mussolini e da nessun altro! Stato sociale non completato proprio perché i compagni e i loro alleati liberalcapitalisti ne ostacolarono il pieno compimento, al punto che, pur di fare la guerra al fascismo, si affiancarono ai più potenti eserciti del mondo capitalista e imperialista. E i compagni ancora oggi si vantano di quella scelta, tanto che in una trasmissione televisiva, dal titolo “Pinocchio”, (giusto un burattino dovevano scegliere) un compagno si esaltò affermando: < Pur di abbattere il fascismo ci alleammo con la monarchia e con Badoglio! >. E i compagni in sala applaudirono. Che bravi!
Bernard Shaw, lo ripeto e lo ripeterò ancora e ancora, nei primi anni Trenta profetizzò: < Le cose da Mussolini già fatte lo condurranno, prima o poi, ad un serio conflitto con il capitalismo >. E così è stato!
 
Oggi, nel teatrino politichese italico, assistiamo alla consueta rissa per rubarsi il potere, così da dividere il bottino del povero popolo sovrano (sic!) e, di conseguenza, il concetto di corporativismo è stato faziosamente distorto: lo si è voluto spacciare per rivendicazioni di interessi particolari. Lo Stato Corporativo mirava, invece, ad una finalità diametralmente opposta e fu il primo tentativo, italiano, di una programmazione unificatrice, di un superamento degli interessi particolari che proprio il sistema dei partiti difende subdolamente. La Democrazia Corporativa, quella verso la quale l’Italia degli anni Venti e Trenta stava camminando, è una strada tutta italiana, ma preclusa ai grassatori. Era quella strada che avrebbe concesso, una volta ancora all’Italia, di essere portatrice di una nuova civiltà: la CIVILTA’ DEL LAVORO! Per raggiungerla, si doveva vincere la guerra contro il profitto sull’oro, ma vinse il profitto sull’oro!
È nostro dovere riprendere quel cammino interrotto dalla violenza delle armi nel 1945. Il programma è rivoluzionario? Certamente! Ma non c’è rivoluzione più grande e ambiziosa di quella intesa a cambiare un sistema con un altro.
Recuperiamo importanti pagine del passato:
REPUBBLICA – SOCIALIZZAZIONE.
Sono passati quasi settanta anni da quando il 14 novembre 1943, in Castelvecchio a Verona, si celebrò il congresso del Partito Fascista Repubblicano, con il proposito di fissare in un “Manifesto” le linee essenziali del nuovo Stato Repubblicano. Come la Carta del Lavoro, nata il 21 aprile del 1927, sarebbe divenuta legge dello Stato quindici anni dopo con la promulgazione dei Codici Civili, così il Manifesto lanciato a Castelvecchio, al di là di alcuni contenuti legati alla situazione del momen¬to, doveva essere un abbozzo dei criteri sui quali costruire la futura Costituzione nazionale. Un preambolo lo definiva il punto 18, ma era di grande rilievo perché con¬fermava il ripudio dello Stato agnostico, proprio delle democrazie parlamentari deri¬vate dai principi del 1789.
Erano trascorsi poco più di due mesi dalla resa che aveva affondato l’Italia nello smarrimento mettendola alla completa mercé dei suoi nemici, ed i convenuti di Verona erano ancora con il cuore in tumulto e ansiosi di cancellare l’onta subita. Nobili e legittimi sentimenti davvero poco adatti alla pacata riflessione necessaria per concepire e studiare certi istituti. Ed infatti lo stesso Mussolini confidò a Bruno Spampanato: < A Verona non abbiamo visto dei costituenti, ma dei combattenti. Ma forse è meglio >.
Alla fine, nel fervore del momento e nell’ansia dell’azione fu approvata per accla¬mazione l’ipotesi di lavoro, e fu un vero miracolo di consapevolezza e di concentrazione, tanto che, se da un canto può uscirne diminuito il valore sotto l’a¬spetto tecnico-giuridico, dall’altro ne è aumentato quello ideale e morale, perché, pur davanti alla materiale sconfitta incombente. per la preponderanza avversaria, quegli uomini vollero gridare al mondo le proprie idee afinché a loro sopravvivessero per germogliare in futuro. Fu una vampata di purissima fede per la quale ciascuno dei presenti non avrebbe esi¬tato a bruciare la propria vita, ma nel contempo fu la conferma che l’idea che anni prima aveva trasfigurato l’Italia e accesa la speranza in Europa, aveva contenuti inequivocabili e profonde radici nell’animo di quanti di essa erano convinti assertori.
Nel rievocare, dopo quasi sette decenni quel giorno memorabile, non dimenticando che l’azione politica deve essere l’applicazione di una salda concezione dell’Uomo, della vita e dello Stato, ma deve procedere e svilupparsi per operare nella mutevole e complessa realtà come tutto ciò che è vivo, ci chiediamo se quegli assunti possano riproporsi oggi, e negli stessi termini. La risposta è che il Manifesto di Verona contiene proposizioni tutt’ora valide e pertanto può essere opportunamente modificato per renderlo idoneo ai tempi mutati. Da esso possono trarsi buone basi per correggere l’attuale deriva negativa della situazione politica ed avviare la costruzione di un nuovo Stato, guidato realmente dal popolo e non dai grandi commessi, o commissari, come in Europa li chiamano, o ministri in Italia. In ogni caso tutti più attenti all’economia che non alla politica, cioè in toto subalterni all’egemonia esercitata dall’economia liberista sulla sovranità della politica.
 
Ed allora raccogliendo il testimone da coloro che ci hanno preceduto a Verona, e nel solco delle idee da loro espresse, noi vogliamo lanciare un nuovo “Manifesto” con il quale proporre tale Stato, condizione unica per riprendere quel cammino di civiltà del quale l’Italia in passato è stata maestra, da sola o insieme ad altre Nazioni dell’antica Europa. Uno Stato, che possiamo definire come integrale partecipazione del popolo al potere, e che nell’ambito di un corretto vivere sociale consente ad ognuno di esercitare la propria libertà e la possibilità reale di partecipare al potere. Così correggendo i danni prodotti da idee ormai ampiamente dimostratesi errate per non aver costruito la democrazia che si ripromettevano, ma delle oligarchie, e delle peggiori, perché formate da potentati economici attenti più al profitto che non ai destini dell’umani¬tà e da potentati politici a loro asserviti al di là da ogni apparenza di diversità di natura ideologico-partitica, che risulta essere frutto di pura strumentalità..
L’errore degli Stati moderni infatti, è stato determinato dall’essersi basati sul noto trinomio: “LIBERTÀ’, UGUAGLIANZA, FRATERNITÀ” dal 1789. Però l’ugua¬glianza non esiste in natura, ed affermarla a base della organizzazione sociale è cosa estremamente deleteria, come nel volgere dei tempi ben si è dimostrato e tuttora dimostra, con la conseguenza che la libertà è solo nelle dichiarazioni, mentre al popo¬lo ne resta molto poca, e la fraternità è di fatto sparita. Occorre invece e per quanto possibile, organizzare uno Stato nel quale nessuno possa artificiosamente impedire ad altri di tentare di concretizzare l’essenza dèi proprio vivere, della quale la propria quotidianità è l’armonica realizzazione, secondo le proprie capacità e volontà, que¬st’ultima effettivamente realizzata e non solo enunciata:
Riteniamo che, per cambiare le cose, si debba considerare che, in quanto parte di un gruppo, l’interesse particolare di ciascun individuo, spirituale o materiale che sia, può trovare migliore e più continua soddisfazione se tanto avviene nel contempo per l’in¬tero gruppo. Gruppo che diviene popolo quando di tanto prende coscienza, e Nazione quando si accorge dei legami di continuità esistenti fra il vivere di ognuno e quello comune del gruppo stesso, nella consapevolezza delle medesime radici e dell’essere “comunità di destino”. Ciò vuol dire che quel che conta per garantire la libertà, non è l’uguaglianza, ma la socialità, altro grande valore indispensabile per la realizzazio¬ne della libertà stessa. Il suddetto trinomio allora si riassume in un unica parola: SOCIALITÀ. Essa, con esclusione dell’uguaglianza, gli altri due termini comprende; in base a questa considerazione fondamentale, allora si può parlarsi di effettiva sovranità del popolo, visto nelle sue diversità come nel suo insieme, richiedendo però ad ognuno il contempora-neo adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà, cosicché dal gioco armonico delle diversità sia fatta sempre più vigorosa e più ricca la vita comune.
Ecco il Corporativismo, e, con esso, la Socializzazione, che soccorrono alla realiz¬zazione di uno Stato nel quale non hanno voce dottrine teoriche e spesso utopistiche, ma realtà effettive, relative ad ogni attività umana intellettuale o materiale, ciascuna rappresentata in una comune assemblea istituzionale e raggruppata in una propria categoria.
Uno solo è il modo per combattere e vincere il capitalismo che subordina l’Uomo alle cose e travalica il campo economico trasformandosi in plutocrazia: eliminare ogni forma di parassitismo sociale e porre come finalità comune le priorità poste dalla realizzazione della libertà e dello sviluppo della Nazione, dando vita ad uno Stato che “Noi” chiamiamo ORGANICO. Uno Stato dal quale ricevere la cittadinanza: possa dallo straniero essere considera¬to altissimo onore, come era un tempo il vivere con la legge romana. Sarà naturalmente necessario accantonare l’attuale Costituzione, e, pur tenendo conto della nostra allergia per tali documenti ridondanti di belle parole poi inascoltate nei fatti e causa di eccessive e talvolta pruriginose staticità idonee per chi detiene il potere ma non per il popolo, sostituirla con un testo che contenga i principi fonda¬mentali, le forme istituzionali ed il loro funzionamento.
Se i “18 punti” del “MANIFESTO DI VERONA” non pretendevano di essere più che un significativo “preambolo”, lo schema del “MANIFESTO PER IL XXI SECO¬LO” che “Noi” proponiamo dovrà essere un aggiorna-mento di quel preambolo, lasciandone immutato lo spirito, proseguendone gli inten¬ti e precisando che non si tratterà mai di pesanti macigni, ma di linee sempre modi¬ficabili, allorché sarà dato di tradurlo in diritto positivo o in qualunque momento in caso di successive necessità
Aggiungiamo altresì a scanso di equivoci da parte di chiunque, che intendiamo rag¬giungere il nostro scopo all’interno e nel rispetto delle leggi vigenti.
Un passo dopo l’altro, per l’Italia e l’Europa di domani.