Malinconico: ripartiamo da Michele Serveto per ricostruire l’identità culturale europea

03 Dicembre 2011

Domenico Cambareri

 

In onore di Miche Serveto e manifesto contro ogno pseudo razionalismo teologico

 

 

 

 

 

 

 

 

Alfonso Malinconico ha speso la sua vita tra l’attività di magistrato (ha ricoperto il ruolo di presidente di sezione della Cassazione) e quella di artista impegnato dall’inizio sino ad oggi nelle sperimentazioni delle avanguardie. Poeta e pittore con escursioni anche in campo musicale, non si è mai saziato delle sperimentazioni attraverso i colori, le forme e i suoni. La parola, quale quantità e qualità di vibrazioni e articolazioni sonore inesauribili e di sollecitazioni incessanti legate alle mutevoli e multiformi rappresentazioni grafiche e assieme ai giochi e alle allegorie a cui dà origine, è stata sempre al centro della sua sperimentazione quale realtà diretta da investigare e da utilizzare per finalità esclusivamente artistiche, è stata motivo di ininterrotta ispirazione e di vocazione realizzata.
Tuttavia, nel rivendicare questa dimensione di sperimentalismo ludico da cui a mio parere traspare anche una condizione di inarrestabile espressione della giocosità e della giovialità di un perpetuo ragazzo, egli – con la particolare e non distruttiva proficuità che scaturisce dalla sua contraddizione – non ha ritrosie nel rivendicare a questo sperimentalismo pure un ruolo “combattivo” , di militanza civile che lo qualifica sul piano della storia delle idee e non solo delle teorie e interpretazioni estetiche. Ecco che allora la sua poesia e la sua pittura si materiano di idee e temi che si collocano nel pieno della quotidianità della vita degli uomini e delle loro storie con quel che di doloroso, e spesso tragico, essa presenta e custodisce o tenta di nascondere e di rimuovere. Ecco che allora la sua poesia diventa denuncia e sfida, aperto dissenso e manifesto e proclama. E la parola si allunga e si slarga in sintassi arzigogolate o asciutte e in versi le cui forme e i cui contenuti diventano strumenti e macchine atti a dardeggiare senza posa l’empietà delle ingiustizie degli uomini verso altri uomini e non di meno quella delle loro strutture ideologiche, religiose, giuridiche, economiche atte a creare quadri di intangibilità veritativa e di giustificazione aprioristica di fronte a cui dovrebbe frangersi la causa di chi cerca giustizia, in ogni tempo e sotto qualsiasi latitudine. E in cui la terminologia forense rende ancor più pregno il linguaggio che, dall’arditismo formale dello sperimentalismo d’avanguardia, si è umilmente e repentinamente abbassato, per così dire, alla dimensione del più repentino e naturale senso di umanità. Arcuato e caricato di gravi e perfino terribili interrogativi filosofici. Ma anche in questa dimensione la prerogativa di Malinconico non tende a smentirsi. Il movimento della sua poesia, come un moto ininterrotto e sempre più aperto, tende a inglobare energie che improvvise contraggono questa direzione espansiva e la attorcigliano in sentimenti di dolore in interrogativi e in pathos in cui il dato esistenziale e quello intellettuale implodono.
Malinconico si è manifestato quale prolifico autore. Di lui ci siamo occupati in occasione dell’uscita di “Cautio criminalis”. Tra i versi più vibranti e impegnati che abbiamo individuato nella sua precedente produzione letteraria, vi sono in particolare quelli di “Dies ad quem” (Book editore, 2000, Castel Maggiore, Bologna, ISBN 88 7232 378 9). Gli spaziosi “stazzi di Zeus” accolgono tutto un bel riuscito recupero del mondo classico di cui è si sempre nutrito il poeta, non meno dei fremiti avanguardistici. In “Cautio”, Malinconico affronta i dolorosi temi delle tragiche ingiustizie che hanno letteralmente bagnato di sangue la nostra storia. Dolorosi temi, tragiche sciagure, massacri inesauribili e episodi circoscritti in cui il veleno delle presunte e inculcate verità religiose e metafisiche consuma insensibile le carni delle vittime innocenti e anche di quelle che furono considerate “colpevoli”, e quindi per l’autore e per noi innocenti con non minore ragione. E’ il caso della “strega” Caterinetta Medici nella Milano del cardinale e santo Federico Borromeo, nell’età in cui era rischioso farsi trovare sprovvisti della certificazione della confessione settimanale. E’ il caso delle “streghe” bambine di Salem, Massachusetts, negli Stati Uniti puritani di fine ‘600, sessant’anni dopo la consumazione della “giustizia” milanese.
L’opera su cui adesso ci soffermiamo è dedicata da Malinconico a un altro martire della cieca e criminale violenza religiosa perpetrata more solito in nome di Dio: Michele Serveto ( Passione e morte di Michele Serveto, Edizioni Empiria, Roma 2010, pp. 83, ISBN 9 788896 21805, € 15,00). La stesura presenta una particolare articolazione. A sinistra, con le pagine pari, vi è una sinossi del pensiero filosofico e religioso occidentale, dai primordi del pensiero ellenico ai nostri giorni, con escursioni e riferimenti a qualcuno dei principali personaggi delle culture orientali. Sul lato destro, con le pagine dispari, leggiamo lo snodarsi del poemetto dedicatorio alla vittima del carnefice Calvino con inclusi richiami e citazioni dirette ripresi dai documenti dell’epoca. Per finire con il precipitare nella contemporaneità ultima in ambo i lati, e con il lanciare il novello manifesto degli eredi di Evemero per un aspetto e degli eredi dell’ateo- materialismo per l’altro maggiore aspetto.
Certo è che qui lo sperimentalismo non rimane più esperienza e gioco delle forme e dei suoni; esso, anzi, persistendo in maniera potente nella sua strutturazione grafica e di modello di verseggiare, spesso con la sua formula poetica scivola su aspetti apertamente prosastici che denunciano come l’empito del vate venga repentinamente offeso e sconvolto dalla crudeltà dei crimini. Esso soprattutto diventa strumento di denuncia e di missione civile che l’autore intende operare dentro tutto lo spaccato dei nostri evi e della nostra civiltà. Contro le violenze perpetrate da secoli e secoli da esponenti e dalla stessa struttura fideistica, teologico – dottrinaria, teologico – giuridica e organizzativa e operativa delle chiese cristiane, in primis la maggiore, quella cattolica. Non possiamo non condividere e non possiamo non fare nostra questa denuncia che percorre i secoli nei brividi del terrore e delle morte di una quantità di vittime che ci sarà sempre sconosciuta. Non possiamo non partecipare al pathos dell’autore in tutto ciò. L’umanità e il senso di giustizia che pervadono il poeta, e che hanno costituito due tra le più rilevanti cifre della sua vita, si dispiegano qui in un concentrato di energie profonde dell’anima sceso apertamente in campo.
Vero anche è che nell’esigenza di individuare un preciso percorso storico dei crimini commessi in nome di Dio – questo Dio tirato per le sue maniche da tutte le parti dalle turbe dei credenti, dai tutti gli apparati di fede e dalle interminabili dottrine che alfine a lui stesso si sostituiscono e parlano sempre e poi sempre in nome suo senza neppure più chiedergli qualcosa,senza mai interpellarlo, facendone nient’altro che un affetto di perpetua minorità e un fantoccio che stringono a piacimento tra le loro mani, e rinserrano tra le pieghe dei loro intrighi e tra gli esplosivi conati dei loro fanatismi e delle loro catacombali patologiche fissazioni; vero è che questa esigenza pone l’autore in quella che per lui si risolve in una necessità fortemente limitante. Quella di dover agire, comunque, ad escludendum. Infatti non si rintracciano i riferimenti, ad esempio e in particolare, alle vittime di altre religioni, salvo eccezioni di passaggio, e alle vittime dei regimi politici proclamatisi atei nel XX secolo. Ad iniziare da quelli del comunismo russo e poi del comunismo cinese. Infatti, anche qui siamo in presenza di una fede, di una “teologia” a-teologica di opposto segno ma pur sempre una fede assolutamente fanatica e imposta con la violenza. I morti per motivi di fede diventano ancora più innumerevoli e indistinguibili e si slargano e dilatano in maree di ombre che pare che vengano a coprire tutta la terra. Assieme all’anti-trinitario e pacifico Michele Serveto, purificato con il rogo in nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo per avere sostenuto e divulgato idee perverse contro la maestà dell’arcano uno e trino. Assieme a Bruno, il “Pampsichicopegaseo (Malinconico), a Campanella, il “pluritorturato in gattabuia”, a Vanini, il “carmelitano arrostito”.
Simpaticissima e godibilissima, anche nelle frequenti punte di pepata ironia se non talora di aperto sarcasmo, risulta la sintesi del pensiero filosofico e religioso, in particolare attraverso i nomignoli che l’autore attribuisce o affibbia a quasi tutti i filosofi e pensatori citati, ben 188, che iniziano con gli albori della Ionia e che terminano con due italiani non lontani dai lidi culturali di appartenenza di Malinconico, Vattimo e Odifreddi (davvero da inserire in cotanta lista?). Un excursus che riattiva la memoria e l’intelligenza del lettore perché lo sprona ad aprirsi alla dimensione del ricordo e alla valutazione di concetti talora solo acriticamente recepiti, e gli impone pure di non ritagliarsi uno spazio di comodo sotterfugio, quello di un’impossibile neutralità. E di condividere o meno le opinioni di Malinconico.
In riferimento ai movimenti e alle correnti razionalistiche ma non perciò affatto atee o materialistiche nel senso corrente dei termini, l’autore cita due volte la Massoneria. Sarebbe stato assai proficuo, a nostro avviso, indicare come proprio nella Massoneria razionalità e ricerca “esoterica” secondo la via asciutta e non umida della mistica risultino aspetti non scindibili. E su come uno dei più conosciuti personaggi della letteratura romanzesca del XX secolo e della cinematografia, Zorro, sia in realtà una figura storica, un cavaliere massone dedito alla difesa dei deboli, che finì anch’egli sul rogo di santa romana chiesa (esiste una ricostruzione storica: Fabio Troncarelli, La spada e la croce. Guillén Lombardo e l’inquisizione spagnola in Messico, pp. 405, Salerno Editrice, 1999). Cosa che lascerà dei lettori increduli mentre altri rimarranno esterrefatti. La riflessione a cui a nostro avviso ciò conduce è quanto la storia neppur remota possa risultare stupefacente nel rivelarci idee e informazioni che neppur ci si sarebbe sognati di congetturare.
In realtà, la difesa postuma e accorata e perciò il lodevole recupero dall’oblio di Serveto – cosa importantissima in territorio cattolico non meno che calvinista – sono non soltanto in funzione del compito di denuncia civile che il poeta si ripromettere di adempiere. A lui essi servono anche per gli altri suoi fini, che sono quelli di proclamare l’inesistenza di Dio, sulla linea che va da Evemero a Feuerbach, e, soprattutto, quella che proclama che esista soltanto la materia. Materialismo integrale e negazione totale di ciò che appelliamo anima, spirito, intelletto, logos o realtà intangibile e immateriale. In verità, parte non irrilevante dell’impegno profuso dall’autore nel realizzare questa originale operetta che si legge con grande partecipazione e anche con punte di commozione, è proprio su questi punti che perde mordente, a nostro parere. Non perché e non tanto sul fatto che non si condividano le asserzioni e i proclami della negazione di Dio e del materialismo integrale, ma in quanto l’autore non si accorge o non vuole fare rilevare come queste tesi siano vecchie quanto la nascita stessa della riflessione umana su questi argomenti,e su come essi siano risultati non sempre perdenti e di come la storia delle idee ci presenta delle ibridizzazioni particolarissime. Quale è il caso della concezione materialistica di tanti primi cristiani, presenti anche tra i più famosi apologisti, che vissero in età immediatamente precedente il confezionamento della dottrina di fede ortodossa e cattolica da parte dei concili e che oggi risultano più che desuete scandalose. E quale è il caso, ben dopo il medio evo, della concezione del credente cristiano Hobbes. Il fatto è che il nostro autore e nostro caro amico assume la concezione del materialismo nella modalità di un integrale dogmatismo e di asserzione pseudoscientifica che, per quanto possa risultare corretta sotto il profilo della generale divulgazione, tale non è alla luce di una pur minima riflessione filosofica svincolata dagli schemi che per secoli hanno legato con un fissismo fossilizzante questo termine. Già ai tempi di Aristotele, che ne fu il creatore, questo termine era filosoficamente inadeguato e superato nel tentare di esprimere la natura di ciò che ci circonda e che ricade sotto i nostri sensi. Esso non doveva servire nient’altro che a dimostrare ciò che è definibile in termini di continuum spazio-temporale nel diretto riferimento alle percezioni tattili e visive. Nulla di più ingannevole, visto che la testimonianza dei nostri sensi è relativa esclusivamente alla nostra stretta strutturazione organica. L’esperienza acquisita per mezzo della riflessione degli atomisti e presocratica in generale, per non parlare della filosofia indiana, è un dato indiscutibile. Questo termine, certamente nato già tarato e del tutto inadeguato, ha tuttavia avuto immensa fortuna nella storia del pensiero come medium atto ad indicare ciò che ricade sotto la sfera tangibile e che, nella sua “essenza” dovrebbe costituire l’origine prima di ogni cosa. Ma è già il pensiero presocratico che svilisce sin da prima ogni possibile scappatoia pseudo – concettuale, come abbiamo detto, e, con esso, quasi tutte le pagine dello sviluppo del pensiero scientifico, in particolare delle teorie dell’età moderna e contemporanea. Per cui il buon Malinconico avrebbe dovuto avere meno motivo di esercitare il suo sarcasmo nei confronti di uno dei maggiori pensatori di tutti i tempi, e non tanto perché fosse un pansofista dichiarato e un componente dei Rosa Croce. Nei confronti di Leibniz, contro cui già si era misurato lo scherno di un altro razionalista, apparentemente miscredente, Voltaire. Nella teoria leibniziana della monade, in fin dei conti, possiamo individuare l’ininterrotto e impari confronto che scienza e filosofia si trovano ad ingaggiare nel cercare di penetrare e superare l’inconosciuto per renderlo conosciuto. Ma citare Leibniz ci impone di non fare torto a Plotino e alla genialità della concezione monistica. L’impari confronto con l’immensità senza fine delle ricerche umane e delle inevitabili riformulazioni delle conoscenze e delle “leggi” è perciò chiaro: la materia non indica alcun elemento di auto sussistenza risolutoria ed essa stessa rifluisce su aspetti del tutto indeterminati rispetto al sano, solido e del tutto inventato concetto di materialismo. La materia, insomma, si polverizza, si scioglie, si dilegua entro dimensioni del tutto immateriali, quali sono quelle del mondo subatomico. E quale è la tentata, per noi, definizione che dette il filosofo di Francoforte della monade? Un punto inesteso. Per di più, tutta l’epistemologia dell’età contemporanea ci dipana siffatti problemi, già delineati dal fine superamento delle teorie del più piatto materialismo da parte dell’empiriocriticismo e del convenzionalismo.
Il concetto di a-teismo, per chi si muove entro prospettive non eurocentriche e non dipendenti dalle formulazioni fideistiche che hanno incusso per secoli alle menti e alle anime soggiacenti le paure ammorbanti propalate dalle chiese cristiane e dalle credenze popolari e dottrinarie delle altre fedi, non è fonte di rovina lacuna. Se esso, con tutta intera la teologia, fosse abolito, come agogna Alfonso Malinconico, nulla di definitivo, di catastrofico accadrebbe. Sarebbe come un passare da un rigo ad un altro. I concetti di ontologia e di metafisica stanno già lì da oltre ventiquattro secoli in Occidente, dall’Ellade in poi, e ancora di più in India. Anzi, in India, già nell’età che corrispondeva al fiorire dell’età classica del filosofare ellenico, Gautama detto Buddha, fondava una dottrina filosofica, operativa, e della liberazione dal ciclo karmico completamente atea. Atea e non “materialistica”. Sottolineatura importante perché nel contesto della cultura occidentale abbiamo visto abbinati quasi sempre questi due termini, anche in maniera ssciatta e acritica. Se avessimo un po’ più di conoscenza di quanto è nato e accaduto in Oriente, noi occidentali, ancora oggi ne trarremmo un vantaggio culturale e spirituali immenso. Senza voler scandalizzare qualche lettore e lo stesso caro amico Alfonso, autore di questo poemetto su Michele Serveto che va letto tutto d’un fiato e poi riletto, è da dire che nel “pantheon” buddhista Buddha è perfino collocato al di sopra di tutti gli dei.
Ecco che allora possiamo capire come è difficile avvicinarsi a concezioni così grandiose, di fronte a cui il pensiero più elevato della filosofia occidentale appare come il balbettio dei bambini. Dalle altezze di queste vette dello spirito, cosa può significare mai proclamare un manifesto dell’ateismo e del materialismo? Può solo valere al fine di adempiere l’esigenza di rimettersi al più presto in cammino, finché si vive, nella cerca di questo quid che definire anche come spirito tout court è difficile. Un principio indeterminabile e onnipervadente, che segna ciò che in antico chiamavano Aion nel suo dispiegarsi all’interno dei cicli cosmici e su cui ha riflettuto e dibattuto a lungo a suo tempo Carl G. Jung, secondo ricerche e prospettive psicoanalitiche e mediche, che non possono essere avulse dal più ampio corso della ricerca antropologica, simbolica e filosofica. E su cui si precipitarono tanto Eraclito “lo spocchioso” quanto Nietzsche, “il Dioniso degli anelli”, e Spengler. E che giorno per giorno incanta, attrae e implacabilmente supera le menti di scienziati e filosofi e le loro ricerche e le loro teorie. Nello scorrere dei tempi, forse, i versi a volte raggelanti di Gottfried Benn aiuterebbero Alfonso e noi nel più serrato confronto. Per intanto, sgombriamo spazi nella nostra memoria per la lettura del Serveto di Malinconico, perché da essa avremo tante cose di cui ricordarci, su cui ricercare e riflettere. Anche a costo di una crisi di identità culturale. Per intanto, a me è risultato benefico scrivere queste righe, dopo così tanto tempo in cui non ho più scritto né note né tradizionali recensioni su opere che impegnano i temi maggiori del pensiero umano. Un grazie ad Alfonso Malinconico per avermene fornito l’opportunità, e al suo poemetto su un credente che non suggellò la sua fede con il crisma che aveva posto fine  secoli prima, apparentemente, alle lotte trinitarie. Nella brutalità di verità imposte e con i fiumi di sangue che scendono tra i costoni delle montagne della ragione e delle molteplici ragioni, perfino quando camuffatecon il tranello pseudo – magico della parola “fede”, ossia dell’imposizione e della recezione di una cecità non di rado assoluta.
Non condivisibile ci risulta l’analisi dell’introduttore, Mario Perniola, giacché in pentecostalismo non dimostra altro che quanto in ambito storico-religioso è stato tante volte acclarato.Il proselitismo ha avuto spesso alla base l’ignoranza dei credenti, e dei nuovi credenti, anche nel primo cristianesimo diventato poi, attraverso inimmaginabili operazioni, cattolico e ortodosso. Il pentecostalismo ci presenta dunque qualcosa di già visto che riconferma quanto, in ogni epoca e quindi anche nella nostra, sia potente e prepotente e irresistibile la forza “numinosa” del miracolistico e dell’entusiasmo spesso infrenato presente nelle pistis. Ne è spesso un elemento costitutivo, sin dall’età più remota su cui possiamo dibattere e essa ci può condurre ai fenomeni che qualifichiamo come paranormali, come è ampiamente recepito negli studi internazionali da anni e come e quanto in particolare  ha tratteggiato in maniera insuperabile con i suoi studi il Dodds. L’appellarsi al dato culturale e alla mediazione del pensiero riflettente, presenti nel cristianesimo della chiesa docente e nelle sue forme secolarizzate, sposta solo gli assi del tema.
Alfonso Malinconico, Passione e morte di Michele Serveto, Edizioni Empiria, Roma 2010, pp. 83, ISBN 9 788896 21805, € 15,00

 

 

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