Ilva: ecco una prospettiva per riscattare salute e lavoro. Chi avrà il coraggio di attuarla?

10 Luglio 3013

Mino Mini

 

 

 

 

 

Ave ILVA

MORITURI TE SALUTANT

 

 

 

 

 

Si dice che in Bisanzio, mentre i turchi stavano per entrare entro la cerchia delle sue mura, tra gli assediati, invece di organizzare onorevolmente l’ultima difesa, si discutesse sul sesso degli angeli. Da noi, invece, mentre la speculazione internazionale porta a termine, con successo, il disegno di deindustrializzazione della nazione, nel nostro senato si discute, si, di sesso, ma per bandire il corpo della donna da qualsiasi pubblicità perché la sua visione << provoca anche conseguenze molto serie sul benessere psico-fisico delle persone che la subiscono: è infatti correlata a un aumento dei disturbi depressivi, delle disfunzioni sessuali, dei disordini alimentari >>. Giova, invece, nel più disinvolto spregio della coerenza e nell’esaltazione dell’arroganza degli intoccabili fan dei “pride” che la terza carica dello Stato esalti l’esposizione del corpo nudo dei froci nei gay pride quale “diritto” della nuova casta privilegiata degli omosessuali. Nella più folle rincorsa all’indiscriminato, ugualitario e promiscuo appiattimento dei valori sociali, pronuba, una ministra di colore dell’attuale governo, apparentemente equilibrata ma propensa ad esternare con frasi che spesso hanno un carico da novanta, c’è da aspettarsi che si apra la strada al futuro riconoscimento della poligamia?
 
Intanto a Taranto si muore. Come su muore nella baia di Augusta, a Priolo e Melilli, da decenni. Come su muore nella Valle del Mela nel messinese o a Mestre, o presso altri centri siderurgici e petroliferi. Come si muore più del solito
 
Si muore di cancro per inquinamento, si muore economicamente per eccesso di sfruttamento e di speculazione finanziaria, si muore moralmente per incapacità di giudizio della magistratura nell’applicazione delle norme, si muore per mancanza di sovranità, si muore per disperazione spaventati dallo spettro della miseria.
Quando un popolo si fa ridurre in questa condizione, più che diventare sofferente economicamente, si diventa moralmente (e quindi politicamente) indigente perché proletarizzato, privato di ogni potestà decisionale e ridotto a << cosa >> sub specie oeconomiae . Quando lo stesso popolo rivendica il diritto al giogo per apparente gioco e lo chiama, senza arrossire, “lavoro”, la sua morte dovrebbe chiamarsi con un altro nome: vergogna.
 
Su queste pagine, affrontando il declino delle città industriali che caratterizza la modernità, si parlò anche di Taranto sostenendo la tesi che le nostre città, nate in un’epoca in cui ogni insediamento si poneva in relazione organica con il territorio inverando il rapporto uomo/natura, pur ospitando un’industria, potevano sottrarsi al processo di declino che ha colpito e sta colpendo gli insediamenti nati, invece, come filiazioni delle fabbriche. Perché ciò accada, però, occorre che l’uomo si sottragga al processo di proletarizzazione soprattutto in considerazione del fatto che la terza rivoluzione industriale, oggi in atto, prevede la fine della forza-lavoro strumentale e apre le porte ad una figura di lavoratore – imprenditore la cui definizione altri, meglio di noi, hanno esposto.
 
Da Taranto si può ripartire per superare la crisi.
Vediamo come cercando di comprendere lo svolgimento del processo di crisi che, sia chiaro sin da ora, non è solo economica ma civile, per controllarlo e reimmetterlo nei giusti binari dell’evoluzione.
Il fenomeno ILVA, come si presenta oggi, è la conseguenza di quel processo di deindustrializzazione che i traditori dell’economia italiana avviarono per mettere l’Italia in ginocchio. Tutto cominciò quando, dopo la ricostruzione di un paese semidistrutto dalla guerra, negli anni ’70 superammo economicamente l’Inghilterra, ci allineammo alla Francia e cominciammo ad intaccare la supremazia tedesca in campo manifatturiero diventando la quarta potenza esportatrice. Raggiungemmo il massimo nel ’78, l’anno del terrorismo “rosso”, e fu allora che iniziarono oscure manovre per destabilizzare l’Italia che si temeva stesse sganciandosi dall’alleanza atlantica per via della politica interna filocomunista e di quella estera filo araba di Aldo Moro. Fu anche il periodo del contrasto tra euromoderati ed euroestremisti sul futuro dell’Italia e dell’Europa e le prime posizioni in favore della cessione di parte della sovranità economica a favore di una moneta unica che impedisse alla classe politica di decidere investimenti per la infrastrutturazione mirata allo sviluppo industriale e, più genericamente, allo sviluppo dell’Italia. Per un Paese come il nostro, che aveva visto l’affermarsi del miracolo economico per opera, soprattutto, dell’intervento pubblico, il contrasto di cui sopra, configuratosi come confronto tra keynesiani favorevoli alla infrastrutturazione e monetaristi, generava gravi problemi di instabilità economica e preoccupazioni nell’Europa che vedeva con timore l’eccellenza italiana in campo industriale. Ma c’era di più e di peggio: la metà della forza produttiva nazionale, pubblica e privata, aveva scoperto la finanza. I titoli di Stato italiani generavano una rendita elevata che si andò incrementando per la politica svolta, congiuntamente, da Carlo Azeglio Ciampi, allora alla Banca d’Italia, e dal ministro del Tesoro Beniamino Andreatta; cosicché, invece di investire nelle attività produttive, il comparto industriale si buttò a far profitto in finanza. Fu questo l’inizio del declino del valore delle imprese industriali che non venendo più ammodernate e non acquisendo più nuove tecnologie dette innesco al processo negativo della deindustrializzazione ed alla conseguente truffa delle dismissioni da parte dello Stato . Remember, Britannia?
Fu così che nel 1995 un settore strategico come quello delle acciaierie passò di mano ai Riva che, stando al Gip di Taranto Patrizia Todisco, hanno reso l’impianto causa di <<malattia e di morte>> . Accusa esplicitamente : << chi gestiva e gestisce l’ILVA ha continuato in tale attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza>>. Non possiamo anche sottacere che già prima, in un contesto di prassi assolutamente imparagonabile a quello odierno, la stessa proprietà pubblica, oltre a quella privata, aveva agito “senza discernimento” a pro della protezione della salute pubblica. Il grado di inquinamento dobbiamo più che congetturare che non fosse affatto minore. Altro discorso è che la nuova proprietà nel corso degli anni successivi ignorasse le conquiste della scienza e della tecnica in favore della salvaguardia della salute. E,relativamente alla veloce discesa dall’apice dell’industrializzazione, come diventasse distruttivo il ricorso all’indebitamento pubblico accentuato per motivi di mera lotta partitocratica.
 E siamo al dilemma: che fare?
E’ in gioco la salute degli abitanti del quartiere Tamburi, ormai tristemente noto per i drammatici tassi di mortalità, ma per tutelarne la salute si rischia di perdere posti di lavoro e quote di mercato mettendo alla fame intere famiglie E come fidarsi di chi, per pura logica di profitto, ha provocato malattia e morte? E viene da chiedersi: quella forza – lavoro che ha costituito, a rischio della propria vita, il capitale (umano) di cui si è avvalso strumentalmente il proprietario-imprenditore, sul piano strettamente legale non può avanzare diritti sulla proprietà dell’azienda, ma può avanzare diritti di tutela per la sicurezza sul luogo di lavoro e aspirare ad un congruo risarcimento?
Anche gli abitanti avanzano diritti sulla tutela della loro salute e l’ambiente dovrà essere bonificato per consentire che il quartiere e perfino tutta la città possano essere ancora vivibili. Ma quale sarà la sorte della più grande acciaieria d’Europa, vero e proprio distretto strategico per l’economia e la sicurezza italiane? Finirà anch’essa nelle mani di “investitori” stranieri votati al volatile profitto finanziario? Dopotutto, siamo nella globalizzazione.
Alla forza-lavoro è probabile interessi solo la propria sopravvivenza all’insegna dell’antico popolaresco aforisma: “Franza o Spagna purchè se magna”, ma la vicenda non risolta dell’ILVA dovrebbe aver mostrato, soprattutto ai dipendenti dell’acciaieria, che la globalizzazione premia l’imprenditore peggiore, quello che non rispetta l’ambiente, che non rispetta la sicurezza e la salute, che tende a pagare di meno pur di far profitti. Quello che arriva a trasformarsi in criminale.
 E se alla logica del profitto si sostituisse la logica dell’occupazione come propone da tempo Antonio Saccà?
Ragioniamo: è interesse primario che un settore strategico quale è l’Ilva, rimanga in mani italiane. L’attuale proprietà, qualora dovesse dimostrarsi la tesi del Gip di Taranto, dovrebbe essere posta sullo stesso piano di criminalità dei trafficanti e spacciatori di droga e quindi la loro proprietà dovrebbe essere sequestrata e espropriata in favore dello Stato. Tale proprietà dovrebbe esse alienata per risarcire i cittadini danneggiati con il pericolo di acquisizione da parte di investitori che rimetterebbero l’azienda nel ciclo del profitto più incontrollabile e sporco.
Ma se la forza-lavoro si trasformasse in una compagine di lavoratori, ovvero di responsabili di diverse e complementari decisioni a più livelli (ricerca ed elaborazione, organizzazione, direzione e controllo del lavoro, pianificazione e gestione delle risorse materiali e finanziarie etc.) potrebbero rivendicare di ottenere in affido dallo Stato l’azienda per gestirla a fini non di profitto, ma di mantenimento dell’occupazione, di risanamento ambientale, di struttura di servizio, di ricerca e acquisizione delle tecnologie per la soluzione dei problemi connessi alla gestione e controllo dei fumi etc. etc.. Lavoratori – imprenditori ai diversi livelli di competenza, dunque, riuniti in un unico organismo produttivo con manager ingaggiati dai lavoratori stessi che raggiunti i fini suaccennati, potranno, eventualmente, acquisire anche la proprietà dell’impianto. Tutto questo è da considerarsi un miraggio?
 
Come si vede, un obiettivo molto più avanzato della partecipazione agli utili dell’antica Carta del Carnaro che fu elaborata, novantatre anni fa, dal socialista Alceste De Ambris nella Libera Città di Fiume. La compartecipazione agli utili non riscatta dal ruolo di “cosa” la forza-lavoro che resta sempre capitale umano?
E’ tempo di superare questa umiliante condizione dell’uomo dando al lavoratore dell’ILVA, congiuntamente al perseguimento di fini di cui si è detto, il compito di salvaguardare e dare valore ad un settore strategico fondamentale per gli equilibri geopolitici mediterranei ed europei.