Bankitalia e governo Letta, secondo tempo della privatizzazione. Quali oneri per gli italiani

13 Febbraio 2014

Enea Franza

Nota di Domenico Cambareri

 

 

 

 

Dopo il non voluto “regalo” della BCE alle banche italiane, che hanno già intascato e trattenuto in modo maramaldesco nei loro portafogli i soldi destinati a finanziare le attività imprenditoriali, adesso il governo Letta – anziché riprendere la proprietà della Banca centrale, come aveva provveduto a fare normativamente il governo Berlusconi e come chiedeva la stragrande maggioranza degli italiani, scelta poi azzerata dalla sinistra al governo – regala altri soldi alle banche italiani. L’operazione Bankitalia camuffa politicamente e tecnicamente le ininterrotte malversazioni delle banche nostrane e mira alla loro “ricapitalizzazione” per farle affrontare le nuove scadenze europee di Basilea 2. Ma cosa significa, in termini più precisi e meno neutri, questo? Che gli italiani pagheranno un’altra quota-parte delle “sofferenze” bancarie (quale edulcarata parola, così come quella per indicare  l’usuraio “anatocismo”!). Ossia, gli italiani continueranno a pagare le insolvenze di clienti che in misura maggiore sono quelli che a monte sono stati sicuramente favoriti dagli apparati burocratici delle stesse banche per cointeressenze della più svariata natura, ad iniziare da quelle politiche. Per non parlare di quelle più scopertamente criminali. E  continueranno a pagare gli emolumenti dei vertici delle banche a suon di lingotti d’oro. E’ mai possibile, Letta? Nel seguente articolo, Enea Franza illustra in modo lineare ai lettori il contesto antecedente e odierno dell’affaire Bankitalia. – Domenico Cambareri

 

 

Banca d’Italia, risorse auree, loro proprietà e debiti delle banche nazionali

 

 

 

 

 

 

Quella delle risorse auree della Banca d’Italia è una delle questioni meno discusse dai media e dai politici. Sulla proprietà delle nostre riserve di oro, che secondo alcuni valgono più di 100 miliardi di euro e sono le terze maggiori riserve del mondo, regna la confusione più totale.
  
Il tema della proprietà delle riserve auree, è una questione di non trascurabile importanza, se si pensa che, qualora l’Italia uscisse dall’euro, le stesse riserve auree rappresenterebbero una importante garanzia di sovranità monetaria.
Ma, prima questione, le riserve auree rappresentano davvero una garanzia di solvibilità?
Tentiamo di dare una risposta convincente. Cominciamo con il quantificare le riserve: secondo l’ultima relazione sul bilancio della Banca d’Italia, le riserve auree italiane ammontano a 2.452 tonnellate, che al fixing odierno di un’oncia d’oro hanno un controvalore di 145 miliardi di USD.  Al cambio eur/usd di 1.3275 fanno circa 109 miliardi di Euro.  Le riserve auree italiane rappresentano la terza riserva aurea al mondo, dopo quelle di Stati Uniti di Germania, quarta se consideriamo anche la dotazione del FMI. Tale ammontare è rimasto presso che  invariato negli ultimi dieci anni, vale a dire che non si sono verificate operazioni di smobilizzo che ne hanno ridimensionato il montante.
La questione delle riserve auree si innesta tuttavia con quello della proprietà della Banca d’Italia.
Da ultimo, con il decreto del 27 novembre 2013 il governo Letta ha deciso la ricapitalizzazione delle banche private che partecipano al capitale di Bankitalia, regalando, secondo alcuni,  7,5 miliardi di euro a questi istituti privati.
A dispetto delle apparenze, il tema di discussione non è solo l’oro, ma più in generale la proprietà della Banca d’Italia e quindi non solo dei lingotti ma di tutte le riserve accumulate (oro e titoli in proprietà) che sono iscritte in bilancio ad un valore storico oramai fuori tempo.  La questione quindi si complica.
Prima questione.
Di chi è la proprietà della Banca d’Italia?                                                 
Le quote di proprietà erano originariamente affidate a banche di interesse pubblico,  che nel frattempo sono diventate banche private. Attualmente, Intesa San Paolo con il 42,4% e Unicredit con il 22,1% controllano quasi due terzi delle azioni della Banca d’Italia! Soggetti non bancari, come le Assicurazioni Generali, l’Inps e altri, detengono 15,5% delle quote. Il resto è in mano a banche private ciascuna con meno del 5% delle azioni.
Tramite il citato provvedimento, verrebbe rivalutato il capitale sociale di Bankitalia finora gestito fiduciariamente al 95% dalle banche italiane ex pubbliche (valore attualmente segnato nei bilanci al prezzo di 156.000 euro, valore fisso dal 1936).
Il decreto mira a tramutarlo  da quota di partecipazione con valore simbolico a quota proprietaria da segnarsi a patrimonio, rapportata  al valore  reale della  Banca d’Italia, valore reale rappresentato dai diritti di signoraggio e dalle sue riserve auree raccolte da sei generazioni di Italiani.
Lo Stato regalerà alle banche una somma immensa: 2 miliardi di euro netti a Intesa San Paolo, 1,452 miliardi a Unicredit (22%); 415 milioni a Assicurazioni Generali; 409 milioni alla Cassa di Risparmio di Bologna: 330 milioni all’INPS; 264 milioni a Carige; 184 milioni a Bnl; 165 milioni a Monte dei Paschi di Siena; 138,6 milioni a Cassa di Risparmio di Biella e Vercelli; 132 milioni a Cassa di Parma e Piacenza; 125,4 milioni a Carifirenze.
Il provvedimento – preso molto probabilmente per rispondere in qualche modo alle pressioni sulla ricapitalizzazione delle grandi banche italiane proveniente da Bruxelles – si confonde con quello delle riserve valutarie detenute dalla Banca d’Italia ed alimenta tumultuose ed accesissime polemiche.
La rivalutazione delle quote serve ad aumentare la patrimonializzazione delle banche anche in vista degli stress test richiesti dalla Bce e dal nuovo regolamento di Basilea III.
E’ evidente e scoperto, dunque, l’intento di aiutare le banche private 
Un ulteriore “regalo” a banche e banchieri azionisti di Bankitalia è rappresentato dalla pioggia dei dividendi annui, i quali, fissati al tasso del 6%, ben 24 volte il tasso di riferimento Bce dello 0,25%, oppure se si preferisce 2 volte in più dei tassi di rendimento dei BTP attorno al 3%, porteranno nei bilanci delle banche socie ben 450 milioni di euro.
Al riguardo, è anche doveroso ricordare che, dopo lo scoppio della crisi del 2008, mentre la Germania ha speso 64 miliardi di euro per salvare le sue banche private ricapitalizzandole, la Francia ne ha speso 25 miliardi, il Regno Unito 82 e la Spagna 60, l’Italia ne avrebbe speso solo 6. Perciò, la scelta in questione rafforzerebbe il patrimonio del sistema bancario senza spendere un euro dei contribuenti e senza mettere mano al bilancio pubblico. Si ricordi che i crediti deteriorati dell’intero sistema bancario italiano ammonterebbero a circa 250 miliardi di euro.
Allora, precisato quanto sopra, vorrei un po’ tranquillizzare i lettori, almeno con riferimento alle riserve auree.
In primo luogo, rassicuriamo coloro che pensano che le riserve siano ubicate massivamente a Francoforte o Bruxelles.
A quanto è dato conoscere, esse sono racchiuse e custodite a Roma in Via Nazionale, presso Palazzo Koch (sede storica della Banca d’Italia). Ad essere pignoli, non sono proprio tutte le 2.452 tonnellate ad essere conservate a Roma: una percentuale modesta, si trova presso altre banche centrali del mondo in qualità di collaterale per precedenti operazioni di politica monetaria (pensiamo a quando esisteva la piena convertibilità con il dollaro).
Veniamo alla questione che ci preme. Tale oro appartiene alla BCE o alla banca d’Italia e, a questo punto, appartiene alle banche private o ai cittadini ?
Premettiamo che ovvie ragioni di convenienza e rischio, i gold bars non vengono spostati logisticamente, ma rimangono nella titolarità dell’effettivo proprietario attraverso un vincolo di indisponibilità presso il soggetto che li ha in deposito o li custodisce: quindi, sostanzialmente, non si verifica mai lo spossessamento materiale.
Tale principio è stato seguito quando è stata costituita la Banca Centrale Europea la quale è nata con una propria dotazione non enorme ( 502 tonnellate di metallo giallo). E’ da capire che tutto questo oro in realtà non è fisicamente posseduto in proprio dalla BCE, in quanto le singole banche nazionali che costituiscono il suo azionariato hanno effettuato un conferimento in garanzia pro-quota (l’Italia al 12%), tuttavia con possesso in proprio.
Questo significa che una parte della consistenza fisica detenute dall’Itala a Palazzo Koch (60 tonnellate per la precisione) è nella disponibilità della BCE, quale effettivo proprietario di quella provvista di metallo, ma è in possesso della Banca d’Italia. In termine tecnico, si suole utilizzare il termine di safekeeping deposit per identificare queste circostanze.
Cominciamo adesso ad affrontare i singoli problemi che vengono con frequenza posti all’attenzione dei cittadini dai media che fanno cassa di risonanza alle esternazioni di politici, non sempre ferratissimi della materia eppure molto pronti a lanciare proposte risolutive.
Prima questione: usare l’oro della Banca d’Italia per saldare il debito pubblico. Recentemente abbiamo avuto modo di sentire svariati interlocutori politici proporre lo smobilizzo di parte delle riserve auree per contrarre quantitativamente il peso del debito pubblico. Tuttavia, come visto, le riserve ad oggi valgono 109 miliardi di euro; ne segue che uno smobilizzo totale produrrebbe una contrazione di appena il 5% dello stock di debito pubblico complessivo (2020 miliardi, ultima rilevazione).
L’operazione, sempre ammesso che sia possibile sul piano istituzionale,  avrebbe un risultato complessivo piuttosto modesto.  
Inoltre, ricordiamo ancora che le riserve auree sono identificate universalmente anche come gradiente di ricchezza implicita di un paese: una sorta di ultimo salvadanaio a cui attingere prima di andare a colpire coattivamente il patrimonio dei contribuenti.
Esse, pertanto, al momento attuale, rappresentano ancora una garanzia consistente per i detentori non residenti del debito pubblico ed andarle a smobilizzare comprometterebbe quelle poche sicurezze che possiamo spendere sul piano internazionale in termini di collaterali a garanzia.
Seconda questione: usare l’oro come difesa dalla speculazione che, con buona probabilità colpirebbe la nostra valuta nel caso di una decisione del Paese di uscire dall’Euro.  
Le 2.452 tonnellate d’oro ci mettono certamente nella condizione di affrontare una eventuale ondata speculativa di breve periodo con una certa sicurezza. E’ evidente, tuttavia, che qualora la bilancia commerciale non dovesse registrare un’ immediato surplus positivo, ciò determinerebbe uno shock che richiederebbe un prelievo coattivo forte sul patrimonio dei contribuenti.
Ultimissima considerazione. Le regole di governance che presiedono alla nomina del governatore della Banca d’Italia e del direttorio, sono il presidio escogitato dal legislatore che dovrebbe assicurare che i soggetti proprietari non vadano ad incidere sulla politica economica. Si tratta di una foglia di fico ? Come economista, mi sentirei di suggerire una Banca d’Italia più vicino agli interessi dei cittadini, piuttosto che un totem astrattamente neutrale.
Tale idea, tuttavia, non mi impedisce di suggerire a tanti economisti improvvisati e portatori di proposte “rivoluzionarie” di fare attenzione alle conseguenze delle loro ricette che, invece di curare il malato, potrebbero finire per ucciderlo,  anche quando in realtà possono bastare due conti per palesare a tutti l’inganno e far capire a tutti che gestire un grande Paese ed una grande economia non è cosa molto semplice!