Governo: nuove denominazioni non sono slogan ma ‘presa di coscienza politica’

08 Novembre 2022 Fonte: Il Monocolo Autore: Silvano Moffa

Sovranità, Mare, Merito parole chiave

Ci sono alcune parole che sono subito entrare nel lessico del governo di destra-centro guidato da Giorgia Meloni: Nazione, Sovranità, Mare, Merito. Per meglio declinarle, alcune di queste parole sono andate ad irrobustire alcuni ministeri, ampliandone la originale definizione.

Così il ministero dell’Agricoltura è diventato anche il ministero della Sovranità alimentare, quello del Sud ha inglobato il Mare e quello dell’Istruzione si è completato con il rifermento al Merito.

Alcuni, non a torto, vi hanno visto un segno di identità, il marchio di una destra identitaria e decisa nel poggiare la politica su un solido e robusto inventario di valori e di idee-forza.

E’ evidente che non basta una parola in più per giudicare un governo. Soltanto i fatti del nuovo esecutivo ci diranno se a quelle parole saranno dati contenuto e concretezza.

Soprattutto, con quali modalità, forme e politiche. Quel che appare disdicevole è l’atteggiamento di chi, dall’opposizione e nei circoli dell’intelligencija egualitaria e sinistrorsa, si affanna a colorare di negatività ogni parola che suoni alle orecchie come espressione di un manifesto caratterizzante una identità che, per essere rivendicata dalla destra, è di per sé stessa disdicevole, ributtante, frutto di suggestioni e nostalgie.

Eppure, quelle parole, se intese, come si dovrebbe, nel significato corretto e declinate nel verso giusto, non si faticherebbe a riconoscerle come espressioni di un patrimonio comune, comun denominatore della storia e della cultura degli italiani, della stessa collocazione geografia della nostra Penisola, delle legittime aspirazioni di un popolo che, al di là della destra e della sinistra, sa ritrovarsi unito sotto la stessa bandiera e nutre gli stessi sentimenti patriottici quando si sente minacciato e in pericolo.

Procediamo con ordine. La prima parola è: Nazione. Ernest Renan diceva che la Nazione è un plebiscito di tutti i giorni. Con ciò intendendo l’appartenenza a una cultura e a un dato sistema di valori. Essa si esprime nella lingua, nelle creazioni artistiche, nella religione, nella memoria storica, in un certo sentire e in una concezione del vivere. Cosicché, essa è in noi.

Come scriveva Giovanni Volpe: “vive nella vita di innumerevoli generazioni come coscienza acquisita”.

In questo gioco di assonanze matura quella coscienza collettiva di cui si nutre la Nazione. La Nazione non è solo territorio, lingua, costume, ma qualcosa di più profondo e radicato, appartiene alla coscienza di un popolo, alla sua cultura, alla sua indole.

Senza una solida coscienza nazionale lo Stato non esisterebbe nella sua concretezza storica.

Affermare e difendere questi principi non significa alimentare una concezione chiusa e isolazionista. Al contrario, significa coltivare una idea fondante del nostro vivere “comunitario”.

Principi che dovrebbero impregnare di sé la stessa idea di Comunità Europea. Comunità, appunto, non semplicemente Unione.

Direttamente legata alla Nazione è la Sovranità. Sovranità da non confondere con Sovranismo.

L’argomento rischia di animare discussioni infinite.

Qui ci limitiamo ad osservare che il concetto di Sovranità è al centro della nostra Carta costituzionale, ne informa lo spirito e nel delinea i contorni. Aver collegato la parola Sovranità al dicastero dell’Agricoltura, per certi versi, può apparire persino limitativo.

Ma va dato atto che, per la prima volta, compare una dizione che in altre Nazioni e in altri Stati è presente da tempo. Come in Francia, dove il presidente Emmanuel Macron ha dato vita al “Ministère de l’Agriculture et des la Souverainetè alimentaire”, in linea con le politiche agricole d’oltralpe.

Oppure in altri Paesi e organizzazioni, dall’America Latina al Canada, alle stesse Nazioni Unite e alla Fao.

Correttamente, la presidente di Slow Food Italia, Barbara Nappini, ha sottolineato che il concetto di “sovranità alimentare” non è sinonimo di autarchia, bensì un “diritto dei popoli” a determinare le proprie politiche agricole senza subire costrizioni esterne legate a interessi privati e specifici.

E’ un concetto ampio e complesso, che richiama il rispetto per il cibo, le colture, i territori, i prodotti della natura. Oltre che per quella economia rurale di cui l’Italia ha bisogno di tornare ad essere fiera e protagonista dopo anni di disastrose politiche agricole europee sulle quote latte, sulla distruzione del surplus delle arance e sullo stillicidio nella misurazione di alcuni cereali.

Per non parlare della diffusa contraffazione dei nostri prodotti di qualità, come il Parmigiano reggiano, e degli squilibri ancora persistenti in tema di ripartizione dei fondi europei della Pac.

Nonostante alcuni correttivi introdotti, siamo ancora lontani da un sistema di finanziamento che premi chi valorizza in maniera sostenibile le risorse fondiarie producendo prodotti di alto valore qualitativo ed economico, come in gran parte dell’agricoltura italiana.

Un sistema che premia la rendita a danno delle imprese, dell’innovazione, del ricambio generazionale, della stessa competitività dell’agricoltura europea.

Quanto alla parola Mare, basterebbe leggere il recente, bellissimo libro di Marco Valle, intitolato Patria senza mare, per rendersi conto di quanto sia importante recuperare la centralità del Mar Mediterraneo.

Quel Mare nostrum che non è più nostro, da quando abbiamo lasciato che il cabotaggio e la logistica integrata e portuale fossero dominio degli altri, con i cinesi a farla da padroni in casa nostra.

Eppure, abbiamo alle spalle una storia superba dell’Italia marittima. Una storia di esploratori e navigatori, di bastimenti e flotte, di ammiragli e coraggiosi marinai. Storie che si intrecciano con antiche globalizzazioni e lucrosi commerci, con micidiali battaglie e luccicanti vittorie.

Senza scomodare più di tanto la storia (che è pur sempre maestra di vita) basti ricordare che, all’esaurirsi nel Seicento della stagione degli Stati marinari, dopo tre secoli di declino, fu Cavour a restituire al giovane e fragilissimo stato unitario una dimensione marittima. Prima come ministro della Marina del Regno Sardo e, dal 1861, del Regno d’Italia, Cavour impostò una strategia navale globale. “Un’eredità preziosa – scrive Valle – che nel tempo sorresse la modernizzazione italiana e l’effervescente periodo della prima industrializzazione”.

Nel Mediterraneo, ricorda Braudel, “l’Italia ha sempre trovato il segno del proprio destino”.

Di questo destino sembra che finalmente ci si appresti a rinverdire il senso con il Ministero del Sud e del Mare.

Lo speriamo. Anche perché, nel frattempo, sono cambiate molte cose.

La globalizzazione è in crisi. Sulla scena della geopolitica si affacciano nuove realtà. La guerra in Ucraina sta spostando equilibri e annichilendo antiche certezze. Sono evidenti i segni di una economia finanziaria che ha prodotto diseguaglianze e nuove povertà, di un turbocapitalismo che ha provocato disastri ovunque a vantaggio di regimi autocratici e totalitari.

Ci sono conflitti, nel continente africano, come in Libia ad esempio, che perdurano nella loro asprezza e con il loro carico di morte e disperazione.

Insomma, il Mediterraneo è tornato ad essere il “luogo della storia” oltre che il crocevia delle merci che vanno da Est ad Ovest, da Nord a Sud. Non capire che il Mediterraneo è la cornice in cui inserire il progetto di rinascita dell’Italia significa arrendersi al declino.

Le politiche mediterranee sono politiche dalle quali non si può assolutamente prescindere.

Ci eravamo illusi che spostando l’asse verso Nord, verso Est, verso Ovest avremmo raggiunto competitività e forza. E così abbiamo abbandonato il Mare Nostrum.

Adesso è chiaro che l’unica politica in grado di garantirci autorevolezza è all’interno dei nostri mari. Mentre noi lo abbandonavamo, il Mediterraneo era tornato ad essere un centro nevralgico della politica mondiale. Del resto, in questo grande lago vivevano e vivono più di cinquecento milioni di abitanti, più della metà dei quali in condizioni di tragico sottosviluppo. Se i grandi flussi migratori sono inarrestabili, sull’altro lato della bilancia, il Mare Nostrum ha potenzialità straordinarie.

Porta d’accesso all’Africa, sbocco verso il Medio ed Estremo Oriente è un centro nevralgico per le navi, la logistica, le politiche energetiche del futuro.

Va da sé che mettere al centro della politica il Mediterraneo implica puntare sulle infrastrutture portuali, sull’incremento delle vie del mare e sulla cantieristica navale, in cui vantiamo una industria eccellente, oltre che sulla sicurezza della navigazione.

Si tratta di un’impresa enorme.

Ma non per questo da non affrontare. Si sa che le società cinesi hanno occupato porti importanti per le loro strategie commerciali.

La Cosco, la più importante, è azionista di maggioranza dei porti del Pireo in Grecia, di Valencia in Spagna, di Zeebrugge in Belgio. Possiede quote di partecipazione in quelli di Rotterdam, Anversa, Bilbao e Vado Ligure.

Si appresta ad acquistare il 35% di Tollerot, uno dei quattro terminal per container del porto di Anversa. Altre società cinesi sono entrate nelle compagini azionarie dei porti di Barcellona, Porto Said, Salonicco, Abu Qir, El Dekheila, Alexandria, El Hamdania, Tangeri, Casablanca.

Tutte queste società sono gli avamposti del capitalismo di stato cinese, le punte di diamante delle ambizioni globali di Pechino, di quella Via della Seta Marittima disegnata da Xi Jinping per fare della Cina una superpotenza dei trasporti commerciali via mare. Infine, la parola Merito. Una parola che sembra scomparsa dal vocabolario della politica in tempi di “demeritocrazia”. Averla associata all’Istruzione è già meritevole. Non foss’altro per il segnale che si intende dare, soprattutto ai giovani. Una scuola che non fa del merito una ragion d’essere è una scuola che non ha futuro.

Di più, è una scuola che provoca danni e crea false illusioni. Produce danni perché non prepara i giovani alle sfide di un mondo complesso e a lavori sempre più selettivi.

Li illude perché li disabitua allo studio e al sacrificio, lasciando loro immaginare una vita in discesa, mentre il più delle volte è vero il contrario. Partire dalla istruzione per correggere le storture di una scuola massificata, ideologizzata, resa sterile da una serie di riforme che ne hanno alterato e deformato il ruolo non cozza, non deve cozzare, ovviamente, con il principio sacrosanto di garantire a tutti l’accesso alla migliore istruzione.

Il merito, però, va premiato, valorizzato. Nello stesso tempo, la parola “merito” non va strumentalizzata.”

Chi la usa in modo ideologico, la snatura e la perverte”, ha scritto Papa Francesco, e la fa diventare fonte di diseguaglianza. Diverso è se diventa spinta a far meglio anche per chi è rimasto indietro.

Del Merito, non possiamo, comunque, fare a meno. Soprattutto, non ne possono fare a meno i nostri figli e i nostri nipoti.