Mino Mini: quel che penso di “San Francesco teologo cataro” di Giuseppe Spadaro

1° Aprile 2010

Mino Mini

 

S .Francesco teologo cataro

L’ALBERO DEL BENE

 

Con uno sconvolgente interrogativo, Giuseppe A. Spadaro ne L’Albero del Bene S. Francesco teologo cataro. Edizioni Arkeios € 24,90 chiude la lunga e dettagliata ricerca iniziata con lo scopo, dichiarato nell’introduzione, di confrontare Francesco con le dottrine e le eresie del suo tempo: era dunque un vescovo cataro?
Metodologicamente l’autore svolge un’analisi molto accurata giovandosi, per sua stessa dichiarazione, dello sminuzzamento dei fatti storici in una miriade di frammenti piccolissimi attuata dal Le Goff e riprendendo l’esame delle fonti; talvolta appoggiandosi talaltra criticando gli esegeti delle stesse che lo hanno preceduto. Per questa via giunge ad individuare, nella figura di Francesco d’Assisi, un teologo cataro che opera sotto “mentite spoglie” all’interno della chiesa di obbedienza romana. Il virgolettato è del recensore, sia chiaro, e non dell’autore.
Nonostante la inappuntabile analisi, condotta con estremo rigore, l’autore non perviene ad una sintesi che collochi la vicenda francescana nell’ambito di un processo che aveva come antecedente la caduta di un impero ecumenico come quello romano basato sullo stato di diritto e come sviluppo conseguente due diverse possibilità: il ricostituirsi di un nuovo organismo statuale più maturo oppure il dissolvimento nello stato di natura.
Nato all’interno dell’ impero il cristianesimo è stato, sin dagli inizi, un succedersi di lotte dottrinarie e politiche basate sulla interpretazione dei vangeli e sulla figura del Cristo che rifletteva la visione del mondo reale propria dei contendenti. Di tale visione si ebbero, sostanzialmente, due diverse forme. Potremmo definirle due radici dello stesso albero dottrinario: la prima di queste tendeva al misticismo, alla fuga dal mondo reale – talvolta al rifiuto dello stesso – pervenendo alla rottura con il mondo naturale e conseguentemente con il mondo degli uomini; l’altra radice, invece, tendeva ad un nuovo ordine, giuridico e spirituale insieme, che fosse concretamente ecumenico. Un ordine fondato su un popolo – la Chiesa – che in attesa della vita eterna vivendo ed operando nella realtà di questa terra desse luogo ad un impero ordinato secondo la grande gerarchia ecclesiastica della religione dove lo stato di diritto ereditato da Roma divenisse anche stato spirituale. Due radici che, nella fase di ricostituzione del processo civile, non potevano che entrare in conflitto specialmente quando l’alto clero, spesso nominato dal potere laico, si abbandonava alla simonia e al godimento sfacciato e offensivo dei privilegi e dei beni.
La vicenda di Francesco si dipana in quella fase del processo civile che culmina, lui vivente, nella grande riforma di Innocenzo III. Non va dimenticato che un anno prima della nascita di Francesco si era conclusa la serie di dodici papi che, nell’arco di centosette anni, avevano minato profondamente l’unità e la credibilità della chiesa. Né va dimenticato che ventisei anni prima si era conclusa tragicamente la vicenda di Arnaldo da Brescia e del suo movimento pauperistico ed anticlericale. Nello stesso anno – 1155 – in cui venne impiccato e poi arso sul rogo, cominciò a diffondersi l’eresia dualista del catarismo.
I catari condividevano con il bresciano il pauperismo e l’esercizio dell’umiltà e della carità congiunto ad un forte anticlericalismo che era largamente diffuso tra la popolazione. Ciò rappresentava un veicolo privilegiato di diffusione dell’eresia dualista. Al tempo stesso,però, costituiva un pericolo di dissoluzione della Chiesa. Non era più in gioco il comportamento, riprovevole o meno, del clero, ma le fondamenta stesse del credo e di conseguenza quelle della Chiesa come organismo comunitario e spirituale dei credenti. Il pauperismo, dapprima ben visto da altissime figure della Chiesa, come Bernardo di Chiaravalle ed alcuni pontefici, quale anticorpo contro la corruzione del clero, in specie di quello di nomina laica, una volta associato al catarismo ed alla sua concezione dualistica finiva per divenire sospetto.
Arriviamo a Francesco. Sotto il pontificato di Lotario dei conti di Segni, salito al soglio con il nome di Innocenzo III che era appartenuto all’ultimo antipapa morto diciotto anni prima, la lotta al catarismo si intensifica. Deciso ad estirpare l’eresia nel 1203 il pontefice invia in Linguadoca dei delegati pontifici con il compito di combattere il fenomeno. In pieno clima anticataro tre anni dopo, nel 1206, Francesco rinuncia ai beni terreni per abbracciare il pauperismo vivendo unicamente di elemosina. Poiché una tale professione era propria dei “perfetti” , gli unici tra i catari che potevano rivolgersi a Dio con la preghiera, Spadaro si domanda: Francesco è stato mosso da una fede catara? Svolge la sua rigorosa ricerca analitica per rispondere a tale interrogativo impegnando, a questo fine, quella che appare essere una superiore conoscenza della logica gnostica.
Se si accettasse l’ipotesi dell’autore allora occorrerebbe, altresì, ipotizzare che Francesco avesse nascosto la sua vera fede per una qualche ragione che non conosciamo. Dobbiamo forse credere che una simile scelta fosse influenzata dal fatto che appena tre anni dopo la rinuncia dei beni ed il voto di umiltà e povertà, Innocenzo III avesse bandito la crociata contro gli Albigesi catari avendo, questi, preso a riunirsi in chiese con propri vescovi alla pari della chiesa di Roma? La strage dei 20.000 abitanti di Bézier di quell’anno entra in qualche modo nella scelta “catacombale” di Francesco?
Difficile crederlo. Che il pauperismo dei catari fosse esemplare – come abbiamo detto – lo riconosceva anche il papa. Il quesito che possiamo ipotizzare si ponesse Innocenzo III era, piuttosto, se l’esercizio di povertà, umiltà e carità si sarebbe potuto assumere dall’esempio cataro senza che allo stesso si dovesse congiungere l’eresia dualistica e l’anticlericalismo. Francesco, visto con l’ottica odierna, sembra essere stata la risposta affermativa all’ipotetico quesito innocenziano. Non è un caso che Gregorio IX, grande estimatore e protettore di Francesco sin da quando era ancora il cardinale Ugolino dei conti di Segni – ramo di Anagni – assunto al soglio l’anno dopo la morte del frate lo canonizzi nel 1228. Con “sollecitudine sospetta” afferma lo Spadaro. Alla luce del processo di formazione della civiltà cattolica sembra, piuttosto, sia stato per imporlo alla venerazione dei fedeli come esempio di esercizio della povertà, umiltà e carità cristiana nell’ambito della chiesa romana in antitesi con la analoga pratica catara.
Quale conclusione trarre dalla lettura dell’Albero del Bene? Considerando le risorse di conoscenza profuse nell’investigazione della vita e delle opere di S. Francesco, il saggio presenta più di un pregio. Intanto quello di introdurre alla conoscenza del pensiero cataro e delle sue derivazioni dalla gnosi cristiana, dalla dottrina di Mani, dai fondamenti salvifici della misteriosofia ellenistica e della religiosità orientale. L’esposizione, nel tempo della morte di Dio, stimola la riflessione e spinge a cercare di saperne di più sulle origini del cristianesimo e sulle sue eresie il che costituisce, ad avviso del recensore, il pregio più significativo. Un altro pregio è quello di offrire al lettore un modello di indagine non vincolato ad una tesi precostituita ma aperto ad ipotesi diverse da quelle dell’autore. Non a caso il saggio termina con l’interrogativo ripreso in apertura di questa recensione che sembra un chiaro invito alla discussione. E’ comunque da rilevare la particolarità del saggio che, al di là della conferma o meno dell’ipotesi che il santo fosse un teologo cataro, supera l’agiografia francescana ingigantendo l’immagine di S. Francesco.
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Infine, ma non è l’ultimo dei pregi che altri ve ne sono, l’Albero del Bene, alla luce delle vicende storiche richiamate da Spadaro induce a porsi il grave problema: una religione che vive ed opera nella realtà può, al pari di questa, evolversi oppure no?
Essendo un logos espresso in assoluto è per sua essenza infinito e perfetto al tempo stesso. A rigor di logica, quindi, poiché nulla può essere aggiunto a ciò che è infinito e perfetto, ne consegue che ogni religione non dovrebbe evolversi in quanto non può mutare gli assoluti su cui si basa. La Chiesa, però, non opera solo con la fede ma, tramite la redenzione e assumendo la responsabilità individuale, anche con le opere e queste sono in relazione con il processo del reale che per sua natura segue la legge ciclica del mutare servando. Questo ha permesso, a suo tempo, lo sviluppo di una civiltà che perseguendo il fine di unire cielo e terra ha fatto della costruzione del mondo il suo tèlos e le cui fondamenta ci hanno sorretto sino ad ora.
Oggi la costruzione del mondo sta virando al suo contrario per effetto del nichilismo senza che la Chiesa, apparentemente, riesca a fermare il processo disgregatore. L’Albero del Bene ci appare, allora, come una ricerca della continuità tra passato ed avvenire – passando per Francesco d’Assisi – che le antiche dottrine della salvazione, riproponendo in chiave moderna un attualizzato cristianesimo gnostico, perseguono con il fine del superamento del nichilismo contemporaneo attraverso la apokalipsis cioè la rivelazione-svelamento.