Dal G8 al G20: un nuovo ordine mondiale sotto il segno del lento tramonto americano

09 Aprile 2009

Enea Franza

Fonte: Parvapolis


Un nuovo ordine mondiale per la finanza

Un G20 inconcludente? Ormai sono in molti a chiederselo. Oggi che urge la ridefinizione delle regole del gioco e la ricostruzione di un nuovo sistema economico e monetario internazionale

La necessità di costruire un nuovo ordine mondiale nell’organizzazione dei mercati della moneta e della finanza, scaturisce dall’osservazione che i rapporti di forza tra gli Stati non sono più quelli che uscirono dalla seconda guerra mondiale. A Bretton Woods, nella conferenza che si tenne dal 1° al 22 luglio del 1944 nell’omonima cittadina americana, si stabilirono le regole per le relazioni commerciali e finanziarie tra i principali paesi industrializzati del mondo, concordando un ordine monetario, pensato per governare i rapporti monetari fra gli stati nazionali, che partiva dal seguente assunto: la moneta di riferimento nelle transazioni internazionali era il dollaro ed il maggiore depositario di oro nel pianeta erano gli USA. Adesso, l’attuale crisi ha quale responsabile riconosciuto gli USA, che hanno inondato il globo con titoli senza valore, e, di seguito, anche l’Inghilterra (che aveva passato a Bretton Woods il testimone all’America); essa soffre da anni di un’importante crisi di sviluppo. Altri protagonisti sono presenti sulla scena finanziaria internazionale, in particolare Russia, Cina, India e Brasile, che, peraltro, non sembrano più disposti a pagare il conto dell’enorme deficit statale Americano e che da tempo aspettano di vedersi riconosciuto un ruolo significativo nella finanza internazionale.
La ridefinizione delle regole del gioco e la ricostruzione di un nuovo sistema internazionale basato sulla creazione di una moneta di riferimento che superi il dollaro è la via di uscita, ovvero, a parere di chi scrive, la modalità più rapida per sgonfiare la crisi ed accelerare la ripresa. Peraltro, la storia sembra dimostrarci che, in una situazione di crisi, se non si riesce ad avviare alternative costruttive, le forze della disintegrazione e del conflitto vincono e che gli sforzi di perpetuare un sistema al collasso sono sempre stati spazzati via con il crollo del sistema. In effetti, l’attuale situazione di crisi può ingenerare la forte tentazione di procedere a svalutazioni competitive per riconquistare le quote di mercato oramai perse. Ricordiamo che, tralasciando per brevità altri effetti secondari, gli esiti di una manovra, al rialzo o al ribasso, sui tassi di interesse ricadono principalmente su due grandezze macroeconomiche: il tasso di cambio della valuta nazionale e la domanda interna. Per quel che concerne gli effetti sul tasso di cambio, maggiori rendimenti del denaro dato a prestito e, di conseguenza, maggiori rendimenti dei titoli di stato attraggono capitali esteri. La maggiore domanda di bond da parte di soggetti esteri, porta ad una maggiore domanda estera della valuta in cui quei bond sono emessi, provocando un rialzo del tasso a cui quella moneta è scambiata con altre valute; naturalmente, una diminuzione del costo del denaro ha naturalmente effetti inversi.
Più complesso è invece individuare gli ulteriori effetti che il rafforzamento o il deprezzamento di una valuta nei confronti delle altre ha sul prodotto interno e sul reddito. Una estrema semplificazione porterebbe a pensare che la svalutazione della propria moneta porterebbe a stimolare le proprie esportazioni. Ma, in realtà le cose non vanno esattamente in tal modo. Un primo distinguo può essere fatto sul tipo di economie prese in considerazione. Quei Paesi che producono merci di fascia bassa, tecnologicamente mature od obsolete, di bassa qualità, si affannano ad alimentare le loro esportazioni con svalutazioni competitive della loro moneta. Le altre nazioni che importano tali beni sono così invogliate all’acquisto dal fatto di pagare poco, con le loro monete più forti, tali merci. Una moneta nazionale svalutata fa sì, perciò, che i prodotti di quel paese costino di meno all’estero, e si vendano di più. La diminuzione del costo del denaro e la conseguente svalutazione della moneta possono quindi costituire una strategia percorribile per i paesi che esportano prodotti ad alto contenuto di lavoro e di materie prime nazionali, soprattutto se tali paesi in sviluppo economico. Va da sé il depauperamento delle risorse interne e la sottoremunerazione dei lavoratori che a tale strategia conseguono.
Ben diverso è il discorso per le economie di trasformazione, che esportano cioè prodotti ad alto contenuto di materie prime importate. In tali paesi, le svalutazioni competitive della moneta comportano momentanei e illusori miglioramenti della bilancia commerciale, della domanda estera e del prodotto interno, miglioramenti che svaniscono non appena le imprese devono ricostituire le loro scorte di materie prime riacquistandole all’estero a prezzi resi più cari dalla svalutazione della moneta con cui comprano. Gli effetti della spirale inflazionistica che tale manovra provoca sui prezzi sia interni che esteri dei beni prodotti in tali paesi sono una realtà ben conosciuti nel nostro Paese, e sono state tra le motivazioni forti dell’adesione alla moneta europea. Di contro, nella Germania dell’epoca di Kohl, il marco tedesco era una moneta forte mondiale ed i prodotti tedeschi all’estero erano nettamente più cari di quelli dei paesi esportatori concorrenti, eppure l’esportazioni di quel Paese davano un enorme contributo alla bilancia commerciale, perché i suoi prodotti erano tra i migliori, e gli acquirenti di tutto il mondo li richiedevano. Sintetizzando, e riferendomi alle sole economie avanzate di trasformazione, esporta quel sistema – paese che produce beni di qualità migliore e riesce così a conquistare la fiducia dei consumatori, interni ed esteri e non quel sistema – che, ricorrendo a forzate diminuzioni del costo del denaro e conseguenti svalutazioni competitive, affossa la propria moneta distruggendo la ricchezza liquida dei propri cittadini. E’ utile, per inciso, ricordare che l’intera area dell’Euro è un’economia avanzata di trasformazione.
Veniamo agli effetti sulla domanda interna, anch’essa componente del prodotto interno e del reddito, al pari di quella estera. Secondo taluni economisti (i neokeynesiani in particolare) la diminuzione del costo del denaro invoglierebbe gli imprenditori a investire, potendo attingere soldi dal sistema finanziario e creditizio ad un tasso inferiore. La spesa per investimenti così generata avrebbe un effetto moltiplicatore su tutto il sistema economico, creando prodotto interno e reddito nazionale. Ugualmente, i consumatori sarebbero indotti a risparmiare di meno, visto il minor rendimento dei loro risparmi, ed a spendere di più, magari comprando a rate quando i risparmi non ci sono. Tale aumento dei consumi incrementerebbe a sua volta la domanda interna.
A fronte di tali ottimistiche aspettative c’è la realtà di megasistemi economici di questi anni, quali l’area dell’Euro ed il Giappone, che hanno dimostrato come la domanda, gli investimenti, ed i consumi non ripartono, nonostante i tassi reali d’interesse negativi da anni. Al contrario, si riscontrano, oltre alla stagnazione, una bolla speculativa immobiliare ed una perdita del potere di acquisto delle famiglie. Il discorso potrebbe essere esteso anche agli USA per i quali, tuttavia, una crescita economica c’è stata, anche se drogata – come l’attuale crisi ha dimostrato – dall’esplosione di prodotti derivati. La conseguenza di una tale politica economica è che le possibilità economiche delle famiglie sono ridotte dal calo dei rendimenti dei loro risparmi e dall’aumento dei costi per le abitazioni. Le famiglie si tengono ancora stretti i loro risparmi, non consumano, non domandano i prodotti che le imprese offrono. Gli imprenditori non investono: poco importa se la banca presta a poco i soldi per ampliare la mia impresa e produrre di più, quando non avrei nessuno disposto a comprare questo surplus aggiuntivo di prodotti. Quindi la domanda interna non cresce.
Cresce, invece, a dismisura il prezzo degli immobili, perché, visto il rendimento reale negativo di depositi e obbligazioni, la gente investe i propri risparmi nel mattone. E chi non ha risparmi è comunque invogliato dal bassissimo costo dei mutui ad acquistare anch’egli immobili, prestandosi il denaro necessario. Gli immobili sono infatti un investimento sicuro, visto che la pressione degli immigrati extracomunitari tiene su la domanda di case, in proprietà o in affitto, e impedisce diminuzioni del loro prezzo. Pertanto, nei paesi avanzati, ricchi, dove i residenti sono possessori di piccole e grandi ricchezze mobiliari, il rendimento del denaro, dei risparmi, prima di essere un costo per le imprese indebitate, è una componente basilare, sia in senso materiale che psicologico, del reddito delle famiglie.
Una diminuzione del rendimento del denaro pertanto produce una flessione dei consumi, che va pesata con l’altra conseguenza, di un aumento degli investimenti delle imprese. Un analogo effetto depressivo sui consumi delle famiglie, e di conseguenza sull’intera economia, ha un aumento della tassazione sui redditi finanziari, incidendo anch’essa sulle possibilità di reddito e di spesa delle famiglie. L’erario di stati con un elevato debito pubblico, come l’Italia, beneficia sì, in caso di bassi tassi di interesse, di un minor esborso di spesa per interessi sul debito, ma a tutto svantaggio delle tasche dei cittadini risparmiatori, che hanno prestato quei soldi allo stato investendo in BOT, CCT e BTP; l’effetto è lo stesso di una maggiore tassazione proprio sui risparmi.
Pertanto, le politiche che sono nell’ombra e giocate solo sulla economia finanziaria sono a nostro parere insufficienti ed anzi dannose. Il sistema finanziario, infatti, se vorrà uscire fuori dall’attuale pantano, dovrà affidarsi in primo ad una nuova moneta, meglio un’unità di conto costituita da un paniere di monete. In tal modo, coinvolgendo i Paesi che contano nell’economia del pianeta a partecipare al paniere, si potrà assicurare la stabilità dei mercati monetari, la stabilità dei prezzi delle materie prime, dei mercati finanziari. L’alternativa è che ogni Paese giochi da solo, impostando politiche economiche e sociali probabilmente insufficienti e con un effetto domino che – senza dubbio – non potrà non coinvolgere anche gli altri. In caso di un nulla di fatto, infatti, dovremmo pensare che ogni Paese dovrà gestire da solo una serie di problematiche di non poco conto. In primo luogo, i conflitti tra i nuovi piani di salvataggio e le nuove regolamentazioni, l’adozione di mezze misure e compromessi (che incoraggiano inevitabilmente) la perdita di fiducia del pubblico, i fallimenti di molte grandi aziende sia in USA che in Europa, la probabile nazionalizzazione di molte banche USA, con effetto domino in Europa e Asia.
A questo quadro (mi rendo conto che al lettore potrà sembrare un poco apocalittico) vanno aggiunte le difficoltà che certamente molti governi incontreranno a finanziare il proprio debito se non con il tradizionale ma pericolosissimo ricorso al proprio istituto di emissione, ovvero, con la stampa di nuova carta moneta. Tale intervento è certamente non auspicabile per molte valute che già oggi stanno soffrendo di un calo di fiducia. In particolare, molto acuto sembra il problema per la Sterlina, in grande difficoltà. A tale scenario si sovrappone la competizione frontale tra le grandi aree del mondo USA-EU-Asia, per attirare i risparmi necessari a finanziare i crescenti deficit pubblici. Tralasciando il problema Italia, per l’indubbia pochezza del peso finanziario del nostro Paese nel quadro internazionale, deve preoccupare la eventuale caduta dei buoni del tesoro USA emessi per finanziare l’esponenziale debito americano ed in possesso della Cina, Giappone e Paesi produttori di petrolio, e le conseguenti ripercussioni sul dollaro.
Ma pur tuttavia risulta, al momento, molto difficile pensare ad un accordo che incida sul problema fondamentale, ovvero, quello della moneta di riferimento nei mercati internazionali, ed il G20, tenutosi a Londra nei primissimi giorni di aprile, conferma le nostre preoccupazioni.
Infatti, a parere di chi scrive, nonostante i toni entusiastici della stampa per le decisioni assunte dai Grandi, in realtà il Summit ha partorito in definitiva un topolino. I successi – innegabili – dell’incontro riguardano, il potenziamento del Financial Stability Forum (ora Fsb, Financial Stability Board) presieduto dall’ialiano Draghi,[1] a cui vengono attribuiti poteri di vigilanza sul sistema bancario che, nelle parole trionfali dei comunicati “metterà il guinzaglio agli hedge fund ed agli stipendi dei manager, che saranno legati ai risultati, ed controllerà anche le agenzie di rating”, e la posizione rigorosa sui paradisi fiscali[2], che vede nella Svizzera la principale vittima delle misure che decretano la sostanziale messa al bando del segreto bancario. Per inciso, nella “lista nera” dei paesi coinvolti pubblicato dall’Ocse, vi sono: Costa Rica, Malaysia, Filippine e Uruguay; ma esiste anche una “lista grigia” con le nazioni che non applicano per intero le regole internazionali: Svizzera, Belgio, Lussemburgo, Austria e Liechtenstein. Innegabile anche l’impatto mediatico degli oltre mille miliardi di aiuti decisi dai nel G20 Grandi. Ma anche sotto questo aspetto, circa l’effettva disponibilità dei 1.100 miliardi, quello che appare a tutti chiaro è che ancora non si sa da dove verranno queste risorse. Mentre il Giappone ha già sottoscritto per 100 miliardi ed altrettanto dovrebbe fare l’Ue, per adesso c’è un generica disponibilità della Cina ad acquistare le obbligazioni emesse dall’ Fmi per 40 miliardi, ed il contributo Usa non è ancora definito, né si sa se dovrà passare al vaglio del Congresso. Come si vede, c’è tanto fumo ma i nodi veri non sembrano essere stati ancora affrontati.

Lascia un commento