Esplosione demografica, noncuranza e futuro con quali tinte?

09 Novembre 2011

Mino Mini

 

Tra demografia storica e demografia del futuro

L’INCUBO DEMOGRAFICO. SARA’ POSSIBILE PILOTARE IL RISCATTO DEGLI UOMINI?

Quali gli interrogativi e le prospettive di cui la politica, l’ecoambientalismo, l’urbanistica, la sociologia e la filosofia non parlano? Cerchiamo di affrontarli.

 

 

Il 31 ottobre dell’anno che stiamo vivendo, giornali e telegiornali hanno diffuso la notizia: nasce oggi il settemiliardesimo abitante del pianeta.
Nessuna analisi, nessuna riflessione sul fenomeno demografico è stata prodotta, talché a tutti è sfuggita l’importanza di questo traguardo superato da un ignoto/a bambino/a. E’ vero, incombe la crisi economica e sono altri i problemi pressanti che ci affliggono nell’immediato, ma nessuno pare essersi reso conto di quest’altra crisi ben più grave che la nascita del nuovo abitante del pianeta denuncia. Se, come ha rilevato Marcello Veneziani, in presenza di una crisi economica planetaria come questa non si è registrato alcun pensiero sulla stessa, sarebbe troppo aspettarsi che l’arrivo di un settemiliardesimo essere umano spinga il mondo della filosofia contemporanea alla riflessione. In Oriente come in Occidente, al Sud come al Nord. E’ significativo questo silenzio del pensiero perché, come vedremo, rivela che di fronte al fenomeno della crescita della popolazione, la cultura della modernità, diffusa ormai a livello mondiale, sia stata incapace di controllarne gli sviluppi con conseguenze imprevedibili.
Proviamo, da urbanisti, ad affrontare il problema mettendo, prioritariamente, le mani avanti. Quando parliamo di controllo del fenomeno non intendiamo che lo stesso debba essere esercitato sulla popolazione in crescita. Intendiamo il controllo o governo del rapporto uomo/natura.
Vedremo più avanti il fenomeno sotto il profilo insediativo che non si limita alla dimensione urbana, ma si estende alla dimensione universale del territorio. Come andiamo sostenendo da tempo su queste colonne –repetita iuvant – il territorio alle diverse scale dimensionali (ecumene, nazioni, città e via declinando) comprende tutto ciò che è connesso allo spazio fisico, cioè alla natura, e tutto ciò che è connesso alle istituzioni che caratterizzano la civiltà dell’uomo. Nel termine territorio, nell’accezione secondo la quale lo stiamo usando, è implicita ogni possibile relazione fra l’uomo e la natura. In tal senso, come concetto, esso esprime l’insieme della vita dell’uno e dell’altra in reciproca simbiosi: la natura come organismo ospitante e l’uomo come organismo ospitato. Essendo costituito da due simbionti viventi è anch’esso vitale e quindi soggetto ad un continuo processo di mutazione – che si manifesta come evoluzione o involuzione – finalizzato alla ricerca di un equilibrio nel rapporto uomo/natura. Il che implica un continuo mutare del territorio allorchè l’uomo – l’organismo ospitato – per sopravvivere in equilibrio costante, ancorchè metastabile, con l’ambiente ospitante, muta al mutare di questo.
Qui occorre intenderci molto chiaramente: quando parliamo di equilibrio – ricordiamolo: sempre metastabile e quindi comprensivo della mutevolezza – non intendiamo riferirci a quello settoriale propugnato dagli ambientalisti che vede, come fine primo, la tutela di uno solo dei due simbionti: la natura. Un fine “squilibrante” nei fatti quanto quello che antepone l’interesse sociale ed economico all’altro simbionte: l’uomo.
Siamo, infine, giunti al punto sperando di aver chiarito anticipatamente i possibili equivoci. La tesi che ci accingiamo a sostenere è la seguente: oggi il rapporto uomo/ambiente non è più in equilibrio per l’incapacità della cultura moderna di mettere in atto dei sistemi di intervento nell’ambiente che lo rendano atto ad ospitare 7 miliardi (MLD) di abitanti.
Detto ancor più sinteticamente: l’uomo contemporaneo non è più capace di costruire il mondo.
Per sostenere questa affermazione, facciamo uso di un rapporto settoriale e meramente quantitativo atto, però, a rendere l’idea: la densità storica, ovvero il numero di persone che hanno occupato la superficie terrestre effettivamente conosciuta in determinati momenti storici. Da tale rapporto si può trarre un parametro che indica lo stato di equilibrio uomo/suolo espresso dal numero di abitanti per chilometro quadrato (kmq).
Risaliamo indietro nel tempo all’interno della nostra era. Facendo ricorso alla demografia storica e traducendo in grafico l’andamento stimato della popolazione nel periodo che va dal 520 d.C. ad oggi, si può constatare un fenomeno sorprendente: la popolazione del mondo conosciuto dal 520 al 1930 è andata raddoppiando per cicli successivi, ciascuno la metà del precedente. Interpolando tale grafico con quello relativo ad un’altra dimensione che esprime la superficie del territorio effettivamente occupato, abbiamo la possibilità di individuare lo stato di equilibrio uomo/suolo di cui abbiamo detto con risultati davvero sorprendenti.
Nell’anno 520 d.C. l’Impero Romano d’Occidente (le maiuscole in segno di rispetto) ha, da poco, cessato di esistere. Da vent’anni in Afghanistan l’arte del Gandhara, frutto dello scambio culturale tra arte indiana e ellenistica che anticipò i successivi momenti d’incontro fra quella romana e quella sassanide, ha realizzato il complesso monastico di Bamyan dove splendevano le gigantesche statue di Buddha scavate nella roccia che i talebani, nel marzo 2001, si preoccuperanno di distruggere a cannonate. Il monaco indiano Bodhidharma introduce in Cina il buddismo zen ed a Bisanzio regna l’imperatore Giustino, zio di quel Giustiniano che gli succederà sette anni dopo. In Occidente è scesa la lunga notte del Medioevo e Maometto non è ancora nato. Si stima che la popolazione del mondo allora conosciuto sia di 62,5 milioni (Ml) abitanti.
Dopo un primo ciclo di 730 anni, l’Occidente sta uscendo dal Medioevo e nel 1250 si ha il primo raddoppio. Il mondo conosciuto è piccolo, 10Ml di kmq, ed è abitato da 125 Ml di persone. L’indice dell’equilibrio, dato dal rapporto uomo/suolo o uomo/ambiente, è espresso dal parametro 12,5 abit./kmq.
Nel 1615, dopo un secondo ciclo durato 365 anni – la metà di quello precedente – si ha il secondo raddoppio di popolazione. Con la scoperta delle Americhe il territorio occupato si è ampliato a 20 Ml di kmq ed è abitato da 250 Ml di abitanti. Il parametro rimane fisso a 12,5 abit./kmq.
Nel 1795, dopo un terzo ciclo di 180 anni – la metà del precedente – si ha il nuovo raddoppio della popolazione che arriva a 500 Ml di abitanti. Si raggiunge la conoscenza del 49% della Terra e si occupa il 32% delle terre emerse: 40 Ml di kmq. Il parametro rimane fisso a 12,5 abit./kmq.
Dopo un ulteriore ciclo di 90 anni – la metà del precedente – nel 1885 si ha il quarto raddoppio della popolazione e si raggiunge il primo miliardo. Si perviene alla conoscenza dell’83% della Terra e si occupa il 60% delle terre emerse: 80 Ml di kmq. Il parametro rimane fisso a 12,5 abit./kmq.
Il quinto ciclo si conclude nel 1930 dopo 45 anni – la metà del precedente – con il raggiungimento del secondo miliardo. Ormai il territorio occupabile è occupato – 150 Ml di kmq – ma improvvisamente l’equilibrio che era stato mantenuto per oltre 1365 anni, si rompe. Il parametro sale a 13,3 abit./kmq. Da questo momento la velocità di raddoppio va diminuendo.
Il sesto raddoppio, infatti, avviene nel 1975, dopo 45 anni, lo stesso ciclo del precedente, ma questa volta la superficie non può più crescere. La Terra è diventata un mondo chiuso, finito. Il parametro raddoppia a 26,6 abit./kmq .
Con i 7 MLD raggiunti il 31 ottobre 2011, il parametro sale a 46,6 abit./kmq, ma non si è ancora concluso il settimo ciclo del raddoppio. Nel 2025, attendibilmente, si raggiungerà l’ottavo miliardo completando, dopo cinquant’anni, il settimo ciclo iniziato nel 1975. Nel nostro mondo, diventato piccolo, il parametro salirà a 53,3 abit./kmq.
Abbiamo visto il processo territoriale sotto l’aspetto settoriale dell’occupazione quantitativa e indifferenziata dell’uomo sul suolo. A questo punto si presentano spontanee alcune considerazioni. La prima riguarda l’equilibrio territoriale che alla fine del quinto ciclo si rompe. Da quel momento, l’ambiente è diventato, come abbiamo detto, un spazio finito, un contenitore chiuso all’interno del quale l’altro simbionte, l’uomo, è cresciuto spropositatamente. Come ci insegna la fisica, al di là di un punto critico i gradi di libertà delle molecole in un contenitore chiuso diminuiscono con l’aumento del numero delle stesse. Possiamo affermare con Frank Herbert, l’autore di Dune, che altrettanto avviene per l’uomo in un ecosistema finito. In tale condizione l’equilibrio viene alterato ed il problema diventa come ricostituirlo; ma, tuttavia, esso consente ai due simbionti di adattarsi e reciprocamente condizionarsi in piena libertà. Ciò implica che il reciproco adattarsi e condizionarsi avvenga alla stessa velocità per entrambi.
E qui scaturisce la seconda considerazione: la velocità di propagazione del simbionte uomo, già riscontrata da Malthus (1766-1834) nel terzo ciclo – quando la popolazione era ancora di 500Ml di abitanti – sorprese la nuova cultura della modernità inadeguata ad affrontare un fenomeno che la poneva come l’apprendista stregone di fronte alle forze da lui scatenate senza la prospettiva dell’intervento risolutore del “principale”. Malthus, che, con il suo Saggio sul principio della popolazione (1798), è stato il primo a porsi il problema, era un economista la cui cultura era frutto di quella “meccanizzazione della concezione del mondo” – come la chiamò Dijksterhuis – introdotta con la rottura dell’unità della coscienza da Cartesio. In conseguenza di ciò, la sua visione del problema era, quindi, settoriale e la sua percezione della natura, ivi compresa quella umana, puramente meccanica e quantitativa. E tale si trasmise nelle elaborazioni dei successori, per i quali l’economia era retta da “leggi” aventi lo stesso valore impositivo di quelle della natura ed alle quali, come a quelle della natura, era vano opporsi. In questa prospettiva distorta, la realtà venne ribaltata: l’uomo, come parte della natura concepita meccanicamente, doveva essere subordinato alle leggi economiche.
Fu a questo punto che il fenomeno prese la mano all’apprendista stregone allorché, per l’efficienza della “legge”, alla subordinazione si sostituì la esigenza dell’economia e della tecnica di uniformare, ai suoi fini, l’uomo in crescita. Il passo successivo, quindi, fu la formazione, tramite condizionamento inconsapevole, di un uomo nuovo la cui identità venisse annullata per renderlo indifferenziato ed essere poi rimodellato in funzione della produzione e del consumo. Un numero senz’altra dimensione che quella economica.
Fu questa la risposta “naturale” della cultura della modernità al problema della crescita della popolazione: la realizzazione di un onnipotente meccanismo di riduzione dell’uomo a numero. La comunità degli uomini divenne società, ovvero un aggregato per contratto, riducendosi a massa. Nostra indistinta signora la massa, la sfotté il Bagaglino d’antan. Siamo così arrivati alla realizzazione di quella “perfezione della tecnica” preconizzata da Georg Friedrich Jünger: < Il progresso tecnico e la formazione delle masse vanno di pari passo e si condizionano l’un l’altra … il progresso tecnico è più forte dove la massificazione è più avanzata>.
Il lungo discorso condotto sin qui ha occupato tutto lo spazio a disposizione. Rinviamo allora ad una prossima puntata la descrizione del fallimento dell’uomo nella costruzione del mondo, ovvero del processo che ha portato alla realizzazione delle periferie ed alla mutazione dell’uomo in cyborg, l’abitante protesizzato delle stesse. Per intanto auspichiamo che l’avvento del settemiliardesimo nato induca alla riflessione. Per parte nostra, anticipiamo tre considerazioni che riprenderemo nella prossima puntata:
1. Il treno della crescita demografica è sempre in corsa e la nostra cultura ufficiale (e non) non è in grado di pilotarlo. Il fine che una nuova cultura dovrà porsi sarà quello di ripristinare l’equilibrio ormai spezzato per far svolgere ai due simbionti il mutamento necessario alla stessa velocità;
2. Per quanto riguarda l’abitare, la cultura della modernità non è in grado di progettare le città del terzo millennio in modo tale da ridare identità ai suoi abitanti e determinare un nuovo equilibrio tra l’uomo ed il suo ambiente;
3. Non esiste una soluzione univoca al problema della città, oltro che ogni cultura dovrà stabilire una propria condizione di equilibrio posto che la stessa, in epoca di nichilismo diffuso, abbia ancora o possa pervenire a una propria visione del mondo.
(fine prima parte)